domenica 21 agosto 2022

Ragione e irrazionalità 7000 anni fa

 


Per un certo periodo, agli inizi della storia documentata, si volle condurre una vita razionale in base a calcoli astronomici, ritenendo che il cielo suggerisse mutamenti di condotta. L'irrazionale in tale situazione diventa l'atto che si oppone al decreto astrale.

Le guerre mesoamericane del periodo maya, tolteco e azteco, si conducevano in rispondenza ai cicli di Venere. La vita di un re africano, del tipo accertato da Frobenius, rappresentava sulla terra una condizione celeste, al cui termine egli andava sacrificato.

Il primo a esporre questo sistema astrale di razionalità e quindi a fornire una lettura astronomica dei miti fu Dupuis (Dell'origine di tutti i culti), che fondò la sua interpretazione sul ciclo zodiacale letto a ritroso per effetto della precessione equinoziale. Quattromila anni fa, egli sosteneva, il sole apriva l'anno del Toro e a questa immagine furono improntati religione, arte e ordinamento politico.

Un ritorno, seppure in altro tono, all'impostazione astronomica si ebbe all'inizio del XX secolo allorché essa fu estesa a tutta la favolistica, per opera della scuola di Lipsia, il cui ispiratore era H. Winkler [1907], traduttore delle lettere di Amarna e direttore degli scavi che svelarono la civiltà ittita.

Egli diede un profilo della civiltà babilonese come retta non della spada ma dalla sapienza astrale. Ogni fenomeno che sulla terra si materializzasse risaliva alle energie numerabili, ovvero agli dei-numeri, che offrivano la griglia entro la quale tutto andava riscontrato. I templi fungevano da osservatori astronomici e da banche (dove il cambio tra oro e argento era di 13,50:1, equivalente ai giorni dell'anno solare e a quelli del mese lunare). Tutto acquistava razionalità in virtù della stella corrispettiva e del movimento celeste che imprimeva lo scatto terrestre.

L'impostazione della scuola di Lipsia riemerse con l'opera straordinaria di G. De Santillana [1969] nella quale si indaga la civiltà astrale di cui testimoniano i grandi miti d'ogni popolo della Terra.

La ricostruzione s'appoggia al ritorno costante nelle mitologie di certi numeri: 432.000 sono le porte del Walhalla norreno, mentre in India altrettante sillabe si contano nel Rg Veda, le cui strofe ammontano a 10.800, quanti i mattoni nell'altare del fuoco. Così 108 statue sono scaglionate per ogni via di Angkor Vat, per un totale di 432. Censorino informa che Eraclito assegnava 10.800 anni all'eone, e Beroso attribuiva 432.000 anni al Grande Anno babilonese.

In America emergono gli stessi archetipi di Mesopotamia, Siberia, India e Scandinavia; in ogni latitudine si serba dunque la traccia e forse il ricordo vivo di una scienza tradizionale che attorno a 7000 avanti fa insegnava, calcolando la precessione degli equinozi, l'arte di vivere.

Figura sempre ritornante, archetipo d'ogni mitologia è Cariddi, il miro gurge che i Nordici chiamarono Maelstrom o mulino d'Amleto: ha forma di clessidra poiché dalla strozzatura dell'imbuto si schiude il regno dei morti e dell'immortalità, quello medesimo di Osiride, di Ghilgamesh di Quetzalcoatl. La strozzatura rappresenta il gruppo di stelle ai piedi di Orione.

Ma lì c'è anche il fuoco, quello rubato da Prometeo, il Pramantha sanscrito, che designa il passaggio del sole equinoziale da un segno all'altro nello zodiaco.

Nell'epoca dei Gemelli il coluro equinoziale passava sulla Via Lattea, evento che i miti celebrano, inizio dal quale si calcola il tempo in Cina, Messico e Mesopotamia.

Si rilegga il racconto dei Cherokee, la storia dell'imbuto d'acqua vorticante al cui fondo si apre il mondo dei morti e dei giganti. E soprattutto quello dei Satloq della costa canadese del Pacifico, sulla vergine che scocca il dardo in quel Maelstrom, ombelico delle acque, così ottenendo il fuoco.

Mercé i Satloq si dischiude la mitologia greca, e da entrambe le fonti si risale alla verità astronomica: la freccia colpisce Sirio, la stella del mare.

Altra leggenda satloq racconta di un vecchio che grida alla figlia, vergine pigra ma brava arciera, di tirare all'ombelico delle acque per cavarne il fuoco, e costei gliel'ottiene, senonché il vecchio lo custodisce avaramente e un cervo decide di rubarglielo. Il cervo satloq è Prometeo, cioè Saturno, cioè Deus Faber, cioè Crono. Quel cervo, soggiunge De Santillana, è il tocco proto-pitagorico che diviene, in un altro racconto del Nordovest, ancor più esplicito: il picchio allorché sta per scoccare i dardi verso Sirio, alza un canto e quando intona la nota giusta i dardi in fila si saldano l'uno all'altro formando un ponte fra cielo e terra. È ben quel ponte di cui parlava Aristotele citando i pitagorici.


I miti americani come quelli d'Oriente diventano chiari trattati sulla precessione degli equinozi allorché si rammenti che in essi “terra” vuol dire il piano che unisce i quattro punti degli equinozi e dei solstizi, l'eclittica, ed è perciò quadrangolare. Nuove terre e nuovi cieli ciclicamente s'inaugurano causa la precessione, e di questi cicli parlano di cantori d'America come di Sumer, di Assiria come di Scandinavia, di Grecia come dell'India vedica.

Se avvenne una perdita di sostanza nel Medioevo greco e prima nel Regno Intermedio in Egitto, se andò smarrito il sistema del Tempo ordinato ciclicamente, da quell'età dell'Oro sono talvolta meno distanti di noi (cioè dei nostri antenati greci e latini) gli indigeni d'America.


De Santillana dichiarò: «Io sono storico della scienza ma mi sono abbandonato alla fuga nell'età antiche, e da storico della storia del pensiero greco che fui per qualche tempo, mi sono ritirato piano piano verso i millenni avanti Cristo. Le mie ricerche sul pensiero scientifico mi spinsero più in là, indietro nel tempo, e mi trovai in ambienti meno familiari e naturali, ma mi ci spinsi perché cercavo quale fosse l'origine di questa nuova cosa nel mondo che è il pensiero scientifico. E quando mi guardai attorno, là dove cessano i documenti scientifici strettamente detti, mi trovai in regioni dove si parlava senza alcun costrutto da un punto di vista scientifico. Si chiamava allora, questa cosa, materiale mitico e religioso. La parola religioso concede spesso ai dotti di non aver da cercarne il senso, e al traduttore di mettere insieme parole in libertà purché abbiano un certo senso poetico. Ma mi colpirono anche nei cosiddetti Primitivi, certi discorsi che dimostravano un costrutto effettivo che, seppure incomprensibile, si riallacciava certamente anche alla mitologia greca; e fidando nell'idea che questa gente non erano dei visionari, come qualche volta il traduttore li facevano apparire, e appoggiandomi alle grandi ricerche dell'etnologia culturale andai avanti, e ci vollero anni di schedatura e di ricerche critiche, ma via via era come se vedessi emergere un continente sommerso, come la cathédrale engloutie di Debussy, di cui ancora si sentono le campane sott'acqua. Era un continente nel tempo, non già nello spazio, era il mondo che conosciamo ma attraverso millenni scomparsi, diciamo almeno fino a 7000 anni fa».


Già nel volume Le origini del pensiero scientifico De Santillana parlò della “grande costruzione arcaica” su cui già si era posata la polvere quando i Greci entrarono in scena, tuttavia qualcosa di essa sopravviveva nei riti tradizionali, nei miti e nelle fiabe che nessuno più capiva.

In un colloquio dell'Unesco, nel dicembre del '65, De Santillana forniva altri accenni sull'astronomia arcaica, base del primordiale pensiero metafisico, per il quale fine supremo di ogni indagine doveva essere la conciliazione dell'uomo e del fato, tale il semplice fine che le scienze hanno smarrito del tutto nell'evo moderno.

L'uomo del primordi pensava non già secondo concetti rigidi ma secondo schemi come l'eclittica con le sue costellazioni, le stazioni degli astri, le zone celesti, quella strana uranografia dove si connettono cielo e terra sotto la dominazione dei signori planetari dall'inesorabile corso. Ma è anche un legame tra l'armonia e gli astri, l'armonia e le unità di misura, i principi supremi di esistenza che si denominano maat in Egitto e rtà ovvero “rito” in India.

E così l'alchimia fu combinata con l'astrologia, e poi l'astromedicina, le piante, i metalli, gli alfabeti, i giochi sapienti come gli scacchi, i quadrati magici come quello che sussiste nella Melancholia del Durer, il microcosmo combinato con il macrocosmo.

Il tutto non già disposto come un sistema logico, ma come una fuga musicale, come deve essere un vero organismo. Ce ne resta il numero e il ritmo, l'incidenza del momento unico, del tempo giusto, il kairos dicevano i Greci, che decide tra essere e non essere, poiché ci fu un tempo in cui il giusto era innanzitutto l'esattezza, e il peccato era la imprecisione.


(Fonte: Elemire Zolla – La nube del telaio)

giovedì 23 dicembre 2021

Popper e la svolta falsificazionista

 

Nella Vienna dei primi decenni del Novecento Karl Popper (1902-1994) si poneva il problema di stabilire un confine tra scienza e non-scienza. Nel suo caso, ciò significava decidere se e perché teorie come la relatività, la psicanalisi o il marxismo potevano dirsi scientifiche. Emblematico e decisivo è un episodio relativo al periodo di studio svolto col psicologo sociale Alfred Adler (1870-1937): «L’elemento più caratteristico di questa situazione mi parve il flusso incessante delle conferme, delle osservazioni, che “verificavano” le teorie in questione; e proprio questo punto veniva costantemente sottolineato dai loro seguaci. Un marxista non poteva aprire un giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di confermare la sua interpretazione della storia […] Gli analisti freudiani sottolineavano che le loro teorie erano costantemente verificate dalle loro “osservazioni cliniche”. Quanto ad Adler, rimasi colpito da un’esperienza personale. Una volta, nel 1919, gli riferii di un caso che non mi sembrava particolarmente adleriano, ma egli non trovò difficoltà ad analizzare nei termini della sua teoria dei sentimenti di inferiorità, pur non avendo nemmeno visto il bambino. Un po’ sconcertato, gli chiesi come poteva essere così sicuro. “A causa della mia esperienza di mille casi simili”, egli risposte, al che non potei trattenermi dal commentare: “E con quest’ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi”» (Congetture e confutazioni, 1969, il Mulino).

L’episodio è particolarmente illuminante della difficoltà che incontra il metodo verificazionista dal punto di vista di Popper. Anche se, come sostenevano i primi neopositivisti, tutta la metafisica può essere espunta dal novero degli enunciati empiricamente controllabili, purtroppo esistono ugualmente teorie supportate da un alto numero di conferme e che tuttavia non possono dirsi scientifiche: è il caso della psicanalisi, del marxismo, e in generale di ogni teoria sulla realtà che cerchi verifiche alle sue previsioni. E’ sempre possibile, infatti, per chi le cerca, trovare delle conferme, o reinterpretando i fatti, o correggendo il significato dei termini, o semplicemente selezionando tra i fatti quelli che rispondono alle proprie aspettative. 

Non è sbagliato cercare di demarcare scienza e non-scienza, né cercare nell’esperienza un criterio per tale demarcazione. Ciò che è sbagliato è aspettarsi dall’esperienza una verifica, una conferma. L’esperienza, per Popper, non potrà mai verificare una teoria: ma, se quella teoria è scientifica, potrà falsificarla. Mentre un fatto unico basta a rendere falsa una teoria scientifica (come ci insegna il modus tollens della logica classica), nessuna teoria scientifica può essere resa vera, nemmeno da moltissimi fatti (come ci insegna l’avvertenza di non cadere nella fallacia dell’affermazione del conseguente).
A questo proposito, Popper parla di asimmetria fra verificazione e falsificazione. Per falsificare un enunciato basta un fatto che lo contraddica, mentre per verificarlo ne servirebbero infiniti. Tuttavia, a differenza del criterio di verificazione per i neopositivisti, la falsificazione è per Popper solo un criterio di demarcazione, non di significato. 

(Fonte: Paolo Vidali – Giovanni Boniolo)

 

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venerdì 12 febbraio 2021

Je ne parle pas français

 

Chissà perché questo piccolo caffè mi piace tanto.
È sporco e triste, triste... Se almeno qualcosa lo distinguesse da centinaia d'altri. Macché. Oppure se ogni giorno ci venissero gli stessi tipi strani e da un angolo si potesse osservarli, riconoscerli e più o meno (con l'accento sul meno) abituarcisi.
Ma vi prego, non immaginate che quelle parentesi siano una mia confessione di umiltà dinanzi al mistero dell'animo umano.
No, no davvero. Io non ci credo all'animo umano. Non ci ho mai creduto.
Secondo me le persone sono come valigie - riempite con questo e quello, spedite, buttate di qua e di là, scaraventate in aria, sbattute per terra, perdute e ritrovate, a un tratto vuotate a metà, o stipate da scoppiare, fino a che l'Ultimo Facchino le lancia sull'Ultimo Treno, e filano via sferragliando...
Eppure, queste valigie possono avere un grande fascino. Oh, grandissimo! Mi ci vedo di fronte, sapete, come un doganiere.
“Niente da dichiarare? Vini, liquori, sigari, profumi, seta?”
E il breve attimo di esitazione, subito prima di buttare giù con il gesso il classico scarabocchio, al pensiero che stiano per farmela, e l'altro attimo subito dopo, al pensiero che me l'abbiano fatta, sono forse i due istanti più emozionanti dell'esistenza. Almeno per me.
Ma prima di cominciare questa lunga, peregrina, e in fondo non originalissima digressione, intendevo dire con tutta semplicità che qui non c'è nessuna valigia da esaminare, perché la clientela di questo caffè, signore e signori, non si mette a sedere. No, resta in piedi, al banco, e si compone di un gruppetto di operai che vengono su dal fiume, tutti impolverati di farina bianca, calce o qualcosa di simile, e di pochi soldati, accompagnati da ragazzette magre e nere, con anelli d'argento agli orecchi e il braccio infilato nel paniere della spesa.
Anche Madame è magra e nera, con le guance bianche e le mani bianche. Con certe luci sembra proprio trasparente, risplende, nel suo scialle nero, con un effetto straordinario.

Quando non serve siede su uno sgabello col viso rivolto sempre alla finestra. I suoi occhi cerchiati di scuro frugano e inseguono la gente che passa, e pure non cercano. Forse, quindici anni or sono, cercavano, ma ora quella posa si è fatta abitudine.

S'indovina dalla sua aria stanca e scorata, che vi ha rinunciato da almeno dieci anni.
E poi c'è il cameriere. Non patetico, decisamente non comico.

Mai che faccia una di quelle osservazioni totalmente insignificanti che stupiscono tanto in bocca a un cameriere... 

(Incipit dal racconto "Je ne parle pas français" di Katherine Mansfield - Adelphi)   


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venerdì 15 gennaio 2021

10 cose su Dante che (forse) non sai

 

Quest'anno (2021) quest'anno si celebrano i 700 anni dalla morte di Durante Allegherii. Meglio noto come Dante!

Libri, articoli, trasmissioni televisive e radiofoniche su di lui si sprecano, ho pensato quindi di celebrarlo narrandovi 10 cose che (forse) non sapete su di lui.


1) Campaldino

Nel giugno 1289, nella Piana di Campaldino (oggi provincia di Arezzo), si svolse la celebre battaglia tra i guelfi fiorentini e i ghibellini aretini. L'esercito fiorentino era formato da fanti e cavalieri; tra i cavalieri, in prima fila, c'era un giovane Dante. Questo fatto ci ricorda che Dante prima d'esser studioso e poeta fu anche cavaliere, il che implica una condizione economica quanto meno benestante. Non a caso, più volte durante l'esilio, da adulto, si lamenterà d'esser “senza cavalli e armi” e cioè d'esser diventato povero.



2) Lo stemma

Sulle bottiglie di Valpolicella dei conti Serego Alighieri ammiriamo uno stemma con ala dorata in campo azzurro.
Uno stemma che usavano già i discendenti di Piero (figlio di Dante) nel Cinquecento. Ma si tratta di stemma, cosiddetto “parlante”, creato da un'interpretazione fantasiosa e arbitraria del cognome Aligeri, cioè portatori d'ali.

In realtà il vero stemma della famiglia di Dante ero uno scudo con oro a sinistra, nero a destra e attraversato in orizzontale da una fascia bianca.



3) Il Fiore

Allora, questo è ancor oggi dibattuto, ma d'altra parte almeno la metà di quello che sappiamo di Dante è dibattuto!
Comunque, ufficialmente Dante scrisse questo poemetto, titolato “Il Fiore”, dove per fiore si intende l'organo sessuale femminile, e narra della difficile conquista del protagonista di un fiore appunto.

Ne abbiamo parlato anche in questo articolo.

L'antefatto è interessante perché dobbiamo sapere che Dante, al pari degli altri letterati del suo tempo, sta cercando di capire se l'amore è cosa buona o cattiva. A noi potrà sembrare strano, abituati come siamo a ritenere l'amore una cosa bella e nobile, ma in realtà è solo un fatto culturale.
Ai tempi di Dante si riteneva che i comportamenti dovessero essere guidati dalla ragione, e temevano che l'amore, così profondamente irrazionale, li facesse invece agire in modo non consono e inopportuno.

E nel poema “Il Fiore” si argomenta contro l'amore, presentandolo come una follia da cui occorre difendersi.



4) Latino

Dante, da bambino, studiò i rudimenti del latino. Il latino d'altra parte era l'unica lingua che si potesse imparare a scuola, certo non si insegnava il fiorentino o il lombardo ...
Ma Dante era convinto che il latino fosse una lingua inventata, così, a tavolino, per permettere alle persone di comunicare oltre confine.
Una sorta di utilissima invenzione per rimediare ai danni creati dalla torre di Babele!



5) Bologna

Della vita di Dante in generale si sa ben poco, ma si è quasi certi che svolse parte dei suoi studi all'università di Bologna.

Dovete sapere che i notai bolognesi avevano l'abitudine di riempire le pagine rimaste vuote dei loro registri, trascrivendo poesie a loro contemporanee.

Abbiamo parlato di questa curiosa abitudine in un altro post.

Ebbene, in uno di questi registri, un notaio trascrisse a memoria i versi di Dante in cui il poeta descrive la Torre Garisenda, che quindi, con molta probabilità, aveva visto di persona.




6) Verona

Dante fu a Verona in più occasioni dopo il suo esilio da Firenze.

A volte rischiamo di non comprendere appieno cosa significasse essere esule, giacché, seppur restando in Italia, una prima grossa difficoltà era la comunicazione.
Dante ha messo le basi della lingua italiana, ma ai suoi tempi nessuno parlava “italiano”.

Basti pensare che agli inizi del Duecento, quando i frati francescani dal centro Italia decisero di mandare una loro delegazione al nord Italia, inviarono un frate che parlava lombardo e tedesco. Perché lombardo e tedesco erano lingue straniere!

Ma tutto era diverso: le abitudini sociali, le leggi, il cibo!

Non a caso si lamentava “come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”.




7) Il marchese Moroello

Sembra che abbiamo rischiato di non avere una Divina Commedia.
Si dice infatti che Dante, giunto al settimo canto, perse il manoscritto e decise di rinunciare al compimento dell'opera.

Narra il Boccaccio che il manoscritto fu poi ritrovato in un convento e venne mostrato al poeta Frescobaldi, il quale certificò che si trattava certamente di opera di Dante.

E avendo investigato e trovato che Dante era a quei tempi in Lunigiana con un nobile chiamato marchese di Moroello, il quale era in singularità suo amico, pensò di non mandarli a Dante, ma al marchese, che glieli mostrasse, e così fece, pregandolo che, in quanto potesse, desse opera che Dante continuasse la impresa, e, se potesse, la finisse”.
E fu così che il marchese di Moroello convinse Dante a portare a termine la Commedia.

E' quasi certamente una leggenda, ma è una bella leggenda :)



8) Fiorenza

Agli inizi del Trecento, in esilio da diversi anni ormai, Dante scrive la canzone Amor da che convien pur ch'io mi doglia, con la speranza che la canzone arrivi “a Fiorenza, la mia terra / che fuor di sé mi serra / vuota d'amore / e nuda di pietate “.
Spera insomma che i suoi vecchi concittadini, così sordi ai suoi appelli e senza alcuna pietà, capiscano infine che lui non è più un nemico.

Dante scrive “Fiorenza” perché è così che la chiamano in tutta Italia, ma i fiorentini non la chiamano più così, nel loro volgare in continua evoluzione, la chiamano invece “Firenze”.
Senza rendersene conto, Dante era diventato davvero uno straniero per la sua città natia. 

 

9) Parigi

Nel suo lungo peregrinare, sembra che sia stato anche a Parigi, dove ha dato dimostrazione della sua incredibile memoria, se è vero quello che racconta Boccaccio quando dice: “essendo egli a Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione, come nelle scuole della teologia si facea, quattordici questioni da diversi valenti uomini e di diverse materie, con i loro argomenti pro e contra, fatti dagli opponenti, raccolse e ordinatamente come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti fu reputata”.
Insomma fu come un giocatore di scacchi che vinse quattordici partite in simultanea.

In realtà non tutti credono a questo viaggio a Parigi, sembra invece che si sia fermato ad Avignone.

I parigini invece ci credono dato che la via dove pare soggiornò l'hanno ribattezzata “Rue Dante”.



10) Venezia

Nell'estate del 1321, mentre era al servizio dei Da Polenta, Dante venne inviato a Venezia per un'ambasceria.
La sua ultima missione, ma lui non lo sapeva.

Per l'occasione il doge Giovanni Soranzo organizzò un pranzo a cui fu invitato assieme ad altri ospiti illustri.
Ma giunti alla portata del pesce a Dante vennero serviti pesci piccoli, mentre ai suoi vicini di tavola pesci più grandi.
Invece di mangiarli Dante ne prese uno e se lo portò all’orecchio. Il Doge incuriosito gli chiese cosa significasse e il toscano rispose che essendo suo padre morto in quei mari chiedeva al pesce notizie di lui.
Al che il Doge chiese cosa gli avesse risposto il pesce.
E Dante rispose: “dice che lui e i suoi compagni qua nel mio piatto sono troppo giovani e piccoli per saperne qualcosa, ma che in cucina ce ne sono di grandi e adulti che certo mi sapranno dar notizia!”

Durante il suo soggiorno gli fu anche concesso di visitare l’Arsenale, di cui ha lasciato una spettacolare descrizione nel Canto XXI dell'Inferno.



11) Dante dimenticato

(Lo so, avevo detto dieci cose, ma voi mica potete credere a tutto quello che vi si dice, suvvia!)

Fin da subito la Divina Commedia ebbe un notevole successo sul suolo italico (però non si chiamava così, ma semplicemente Commedia, anzi Comedìa in fiorentino duecentesco, fu poi il Boccaccio che le attribuì l'aggettivo “Divina”).
Nel corso del Quattrocento cominciò a diffondersi anche in Spagna, Francia, Inghilterra e Germania, conoscendo una popolarità che durerà fino a metà del Cinquecento, quando Pietro Bembo escluse Dante dai modelli d'imitazione letteraria.
In seguito, con la Controriforma, Dante conobbe addirittura la censura ecclesiastica, fino ad esser quasi dimenticato.
Dante ritrovò poi il favore dei critici e del pubblico nell'Ottocento, durante la stagione romantica.
Attenzione: non in Italia, ma in Germania e in Inghilterra.

Poi, promosso appunto dalla critica straniera, venne riscoperto anche in Italia.

Sarà Francesco De Sanctis a consacrare Dante quale modello d'altissima poesia e simbolo risorgimentale.

 


 

Fonti: “Dante” di A. Barbero - “Vita di Dante” di L. Bruni – “Cronica” di D. Compagni - Varie da F. Villani.



mercoledì 2 dicembre 2020

"Il sogno" di John Donne

 

Per nessun altro, amore, avrei spezzato questo beato sogno.
Buon tema per la ragione, troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a svegliarmi.
E tuttavia tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.
Tu così vera, che pensarti basta,
per fare veri i sogni e le favole storia.
Entra fra queste braccia.
Se ti parve meglio per me non sognar tutto il sogno,

ora viviamo il resto.

Come un lampo o un bagliore di candela,
i tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono.
Pure, giacché tu ami il vero,
io ti credetti sulle prime un angelo.
Ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
che conoscevi i miei pensieri meglio di un angelo,
quando sapesti il sogno, quando sapesti
che la troppa gioia mi avrebbe destato,
e venisti, confesso che profano sarebbe stato
crederti qualcos’altro da te.

Il venire, il restare ti rivelò: tu sola.
Ma ora il levarti mi fa 
dubitare
che tu non sia più tu.
Debole quell’amore di cui più forte è la paura,
e non è tutto spirito limpido e valoroso,
se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce 
che debbono esser pronte
sono accese e poi rispente, così tu fai con me.
Venisti per accendermi, vai per tornare.
Ed io sognerò nuovamente quella speranza,
ma per non morire.


John Donne (Londra, 1572 – Londra, 1631) 


Ascolta "Il Sogno" su Spreaker.

 

 

venerdì 13 novembre 2020

La ricerca della felicità è un film diseducativo

 


La ricerca della felicità (The Pursuit of Happyness) di Gabriele Muccino, è un film profondamente e imbarazzantemente DISEDUCATIVO. 

 

#SpoilerAlert !


La trama si sviluppa intorno alla storia di un padre di famiglia che lotta per la sopravvivenza e per un futuro per il figlio. Attraverso varie peripezie, il protagonista sembra scendere sempre più un basso, fino a non avere neanche più una casa.
L'uomo non si arrende ed è determinato a salvare se stesso e il figlio da una vita di accattonaggio. Infine miracolosamente riesce a trovare un insperato lavoro che lo porta in breve al benessere economico.


In pratica la morale finale del film è che:


1- La felicità consiste nell'avere milioni di dollari: il protagonista passa attraverso vari passaggi di umore e di situazioni di vita, che identifica via via con un'etichetta precisa, fino ad arrivare alla “felicità” che coincide col fatto di essere infine diventato ricco ...


2- Se sei determinato nel seguire il tuo sogno, il sogno si avvererà: convinzione che come abbiamo spiegato in questo post è una trappola mortale, dal momento che solo uno su un milione ce la fa, tutti gli altri (che hanno legato la propria felicità al raggiungimento del sogno) saranno infelici e frustrati …




 

giovedì 1 ottobre 2020

Etimologia mon amour 05

 

Disastro: tutti voi sapete cos'è un “astro”, e tutti sapete cos'è un “disastro”, ma forse non avete mai pensato al fatto che “disastro” si dice così perché è la negazione dell'astro, cioè della “buona stella”.

Così come c'è l'avventura e la disavventura, l'accordo e il disaccordo, l'agio e il disagio, c'è anche l'astro e il disastro.

Non c'avevate mai pensato, vero?

Il termine può indicare tanto l'evento nefasto, quando le sue conseguenze: ad esempio: “La grandine è un disastro naturale che provoca grandi disastri”.

E in entrambi i casi confondiamo la presunta causa (cioè il cattivo allineamento degli astri) con l'effetto.


Burrasca, tifone: dal veneziano “burasca” o “borasca”, in origine aggettivo, cioè “proprio della bora”, il ben noto vento settentrionale che tanti fastidi provoca a triestini e veneziani.

Burrasca è dunque propriamente un fenomeno derivato dalla bora, la quale “bora” non è altro che la forma veneta di bòrea, dal latino bòreas, nome del vento freddo dal nord, detto anche tramontana.

Tifone” invece è parola di origine cinese “T'ai fung” dove “fung” significa “vento” mentre “T'ai” è l'antico nome cinese dell'isola Formosa nell'Oceano Pacifico.

Formosa” è in realtà il nome dato all'isola dai portoghesi, oggi quell'isola è meglio nota come “Taiwan”.

Quindi il termine “tifone” significa “vento che arriva da Taiwan”.


Pantaloni: è sinonimo di “calzoni”, ma i puristi lo respingono perché deriva dal francese “pantalons”. In realtà il termine è francese quanto me, perché questa parola fu importata in Francia ... dall'Italia!

Ed è nient'altro che il nome della famosa maschera veneziana 'Pantalon dei Bisognosi'. La maschera di Pantalone è caratterizzata, tra le altre cose, dalle brache larghe e lunghe fino alle caviglie, e i Francesi, presso i quali la maschera veneziana ebbe grande successo, si misero a chiamare “pantalons” le brache stesse (siamo nel Seicento, quando i calzoni maschili erano attillatissimi e arrivavano fino al ginocchio). Poi noi, col solito vizio italiano di importare dall'estero anche quello che in realtà abbiamo inventato noi stessi, riprendemmo la parola francese “pantalons” italianizzandola in “pantaloni”. Et voilà! 


 

mercoledì 9 settembre 2020

Etimologia mon amour 04

 


Vignetta: la “vignetta” indica una figura, un disegno, che può essere decorativa, o esplicativa, o esser parte di una striscia di un album a fumetti.

Vignetta” però è il diminutivo di “vigna”. Vigna?

La cosa si spiega col fatto che gli stampatori del XVI secolo, e anche oltre, usavano decorare i loro libri all'inizio e in chiusura dei capitoli o sulla copertina stessa, con incisioni formate appunto da tralci di viti e grappoli d'uva; una “piccola vigna” appunto. Spesso queste “vignette” erano veri e propri capolavori di grafica.

A proposito di vignette, ormai da diversi anni c'è questa orrenda e deplorevole moda di usare fumetti celebri, spesso con personaggi di Peanuts o di altri cartoon più o meno famosi, mettendo loro in bocca frasi che in realtà non hanno mai detto, vere e proprie citazioni false …

Auspichiamo pene severe per questi malfattori!



Barba: dal tardo latino “barbas” che significa “zio” (anche Dante usa questo termine nel senso di “zio”, e ancora oggi viene usato con questa accezione in alcune regioni italiane), poi per analogia, così come lo zio è un prolungamento della famiglia, la parola venne ad indicare ciò che sporge, come i peli sulla faccia o i filamenti di una pianta o le frange della carta naturale. O i barbacani, strutture aggettanti delle case medievali, particolarmente comuni a Venezia.

Per estensione “barba” diventa simbolo di virilità: “onde non v'ha barba d'uomo che ti superi”. O di eccellenza: “un dottorone con tanto di barba”. Ma anche del saper stare al mondo: “stare in barba di gatto” cioè saper stare con tutti gli agi, come il gatto di fattoria.


Laconico: ”laconico” sta per conciso, di poche e asciutte parole. Deriva dal fatto che gli Spartani (che vivevano nella regione chiamata Laconia) erano noti per il parlare sentenzioso e telegrafico.
Una volta Filippo il Macedone (avversario quindi degli spartani) inviò loro un'ambasceria recante un minaccioso e ampolloso ultimatum, nel quale diceva: “Se entrerò in Laconia raderò al suolo Sparta, non ne lascerò pietra su pietra” e bla bla …
Gli Spartani risposero con un semplice e laconico messaggio: “Se”.


 

lunedì 10 agosto 2020

Ipazia d'Alessandria - Martire della libertà di pensiero

 

 

Nel 415 DC., ad Alessandria d'Egitto, ci fu uno scontro tra il vescovo e il governatore della città.

Iniziò da un disaccordo sul comportamento di una milizia di monaci e finì con un'accusa di stregoneria mossa contro una delle figure più influenti della città, Ipazia.

Ipazia d'Alessandria era un'illustre matematica, filosofa e consigliera.

Nei secoli successivi alla sua morte, i dettagli sulla sua vita sono stati al centro di molti dibattiti, fino a diventare quasi mitici.

Purtroppo nessuno scritto di Ipazia è giunto fino a noi, ma i racconti dei contemporanei e dei suoi studenti, sul suo lavoro e la sua vita, descrivono le qualità che l'hanno resa una studiosa celebre e un'insegnante amata e che infine l'hanno portata alla rovina.

Ipazia nacque intorno al 355 DC. ad Alessandria, allora capitale della provincia egiziana dell'Impero romano d'Oriente e vivace centro intellettuale.

Suo padre, Teone, era un abile matematico e astronomo greco, mentre non si sa nulla di sua madre. Probabilmente Ipazia era figlia unica e venne istruita da Teone stesso.

Raggiunta l'età adulta, superò il padre sia in matematica che in filosofia, diventando la più importante studiosa della città e prendendone il posto a capo della scuola platonica, simile a un'università moderna.

Perfezionò strumenti scientifici, scrisse manuali di matematica e sviluppò un metodo più efficiente per le divisioni complesse.

Ma forse il suo contributo più rilevante alla vita intellettuale di Alessandria giunse dalle sue lezioni.

La filosofia che Ipazia insegnava era tratta dall'eredità di Platone e Aristotele, oltre che da quella del filosofo mistico Plotino e del matematico Pitagora.

Queste influenze si fusero a formare una scuola chiamata Neoplatonismo.

Per i neoplatonici, la matematica aveva un aspetto spirituale, ripartito tra le sue quattro branche: aritmetica, geometria, astronomia e musica.

Queste materie non venivano studiate semplicemente per pura curiosità o per utilità pratica, ma perché avvaloravano la convinzione che i numeri fossero il linguaggio dell'universo.

Negli schemi ricorrenti delle formule algebriche, delle forme geometriche, delle orbite dei pianeti e degli intervalli armonici dei toni musicali, i neoplatonici vedevano l'opera di una forza cosmica razionale.

Benché Ipazia fosse considerata pagana, termine allora indicante la religione romana tradizionale prima del cristianesimo, ella in realtà non venerava nessuna divinità in particolare, e le sue idee potevano essere applicate a molteplici punti di vista religiosi.

Studenti ebrei, cristiani e pagani venivano dai luoghi più remoti dell'Impero per studiare con lei.

L'ambiente neutrale che Ipazia promuoveva, dove tutti gli studenti potevano sentirsi a proprio agio, era particolarmente straordinario visti i tumulti politici e religiosi che turbavano la città di Alessandria a quel tempo.

Il cristianesimo era diventato da poco religione dell'Impero e l'arcivescovo della città, Cirillo, che aveva guadagnato sempre più potere politico, ordinò a zelanti milizie di monaci cristiani di distruggere i templi pagani e perseguitare la popolazione ebraica.

Così facendo, sconfinò nell'autorità secolare del governatore romano Oreste, un cristiano moderato, dando il via a un'aspra opposizione pubblica tra i due uomini.

Dato che Ipazia era considerata una figura saggia e imparziale, il governatore Oreste consultò la studiosa, che gli consigliò di agire con equità e moderazione.

Ma quando un gruppo di monaci di Cirillo incitò alla rivolta, ferendo gravemente Oreste, Oreste fece torturare a morte il loro capo.

Cirillo e i suoi seguaci incolparono Ipazia accusandola di stregoneria per aver fatto rivoltare Oreste contro il cristianesimo.

Nel marzo del 415, mentre Ipazia stava percorrendo le vie cittadine, la milizia di monaci del vescovo la trascinò fuori dalla sua carrozza e la uccise brutalmente, facendola a pezzi.

La morte di Ipazia rappresentò una svolta decisiva per la politica di Alessandria.

Dopo il suo assassinio, altri filosofi della tradizione greca e romana fuggirono, e la città cominciò a perdere il suo ruolo di centro culturale.

In pratica, lo spirito di indagine, apertura ed equità che aveva promosso morì con lei. 

 

Listen to "Ipazia d'Alessandria, martire della libertà di pensiero" on Spreaker.


(Libera traduzione dal video TED-ED dedicato ad Ipazia d'Alessandria)

 

lunedì 3 agosto 2020

Etimologia mon amour 02


Avere fegato: presso gli Etruschi il fegato era considerato sede di ogni sentimento e qualità interiore. Per gli antichi Greci era sede della caparbietà, della forza fisica e dell'amore sensuale.
Prima di sorriderne riflettete sul fatto che noi oggi continuiamo ad assegnare la sede dei nostri sentimenti al cuore, contro ogni evidenza scientifica ...
Tornando al fegato, dal suo esame gli indovini etruschi traevano previsioni, tale arte era detta “aruspicina” (da
ar che significa fegato e spicio che significa guardare). Gli aruspici predicevano il destino studiando il fegato degli animali sacrificati, comparandolo con un modello bronzeo (famoso è il fegato di Piacenza, modello riportante le ripartizioni degli dèi) per osservare quale divinità aveva mandato quel segno, per poi cercare di carpirne il significato.

Il termine “fegato” deriva dal latino “iècur ficatum” che stava per “fegato di animale ingrassato con i fichi”, molto apprezzato dai buongustai di allora. Poi cadde il sostantivo iècur e rimase solo il participio ficatum, poi trasformato nell'italiano fegato, senza più alcun riferimento ai fichi ma usato eventualmente nel senso etrusco come sede di sentimenti e di coraggio!

Come non ricordare il mito di Prometeo che coraggiosamente rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini. Zeus lo condannò a essere incatenato per l'eternità a una roccia, e dispose che ogni giorno un'aquila gli divorasse il fegato. Ogni notte però il suo fegato ricresceva, così che l'aquila potesse tornare a divorarlo il giorno seguente. Nel mito è presente un fondo di verità: il fegato è infatti il solo organo del corpo umano capace di una rigenerazione quasi totale.



Barella: non so se ci avete mai pensato ma “barella” significa letteralmente “piccola bara”... già … la barella però, come sappiamo, serve anche a trasportare chi si sia semplicemente slogato una caviglia, questo perché in realtà già la parola “bara” implica in sé il concetto di trasporto, “bara” infatti è una parola longobarda che significava appunto “lettiga”, “trasportino”, dalla radice indo-europea “bhar” traducibile col verbo “portare”.

Curioso a tal proposito era il “Giudizio della bara” : era una pratica in uso nel medioevo (ma di cui si ha notizia ancora fino all'Ottocento) per scoprire l’autore di un omicidio: il cadavere dell’ucciso veniva esposto in luogo pubblico, e lo si faceva toccare da tutti coloro sui quali ricadevano dei sospetti, nella convinzione che al tocco della mano dell’omicida le ferite dell’ucciso tornassero a gettare sangue!

Ecco spiegato perché non trovavano mai il vero colpevole ...



Scuola: un ètimo che i professori e gli studenti faticano a digerire, deriva infatti dal greco “skolè” che significa “ozio”, “riposo”. Perché per gli antichi greci le occupazioni intellettuali erano considerate proprie di chi ... non aveva nient'altro da fare.
Anche per i latini il significato era simile, ad esempio negli stabilimenti termali lo spazio attorno alla vasca si chiamava “schola labri” (dove “labrum” sta per “vasca”), per indicare un posto dove si stava seduti a far niente.

Milioni di scolari si troveranno perfettamente d'accordo con questa definizione!