venerdì 29 gennaio 2010

L'Ornitorinco e l'Arte


L'ornitorinco è il simbolo dell'impossibilità di chiudere il mondo, la vita, la storia dentro alle categorie rigide cui spesso gli uomini si aggrappano. Ogni esistenza è unica e irriconducibile. Non può essere ridotta e semplificata se non per pure necessità comunicative. Questa convinzione e consapevolezza sposta il campo della riflessione nel mare aperto dell'interpretazione e della complessità.
Ma per evitare il solipsismo occorre sviluppare ampi ambiti di confronto, di condivisione, di libera discussione.
E' la consapevolezza che le regole, le categorie, le leggi scientifiche, le idee sono prodotti degli uomini, oggetti di cultura mutabili e mutevoli e non immutabili dogmi di natura, che libera gli uomini dal peso di regole ed etiche eteronome, ma al tempo stesso lo responsabilizza nella costruzione di un'etica comunitaria, collettiva, responsabile.
L'arte in tutte le sue forme è il campo più importante, decisivo, ottimale per lo sviluppo di queste convinzioni. Un universo culturale fatto di soggettività forti e al tempo stesso che vive nella comunità, nel confronto continuo con il pubblico, nel continuo gioco di tradimenti tra autori, registi, interpreti, versioni, riproduzioni...
Cultura è apertura. Questo significa dare attenzione, spazio e respiro a tutti i percorsi creativi come produzione di senso collettiva, interna a un contesto sociale e culturale in continua evoluzione, e anche centralità ai condizionamenti non razionali che incidono sul nostro modo di rappresentarci il mondo.

domenica 24 gennaio 2010

Horreur du domicile


In uno dei suoi momenti cupi, Pascal disse che tutta l’infelicità dell’uomo proviene da una causa sola: non sapersene stare quieto in una stanza. “Notre nature” egli scrive ”est dans le mouvement…La seule chose qui nous console de nos misères est le divertissement”. Diversivo. Distrazione. Cambiamento, di moda, di cibo, amore, paesaggio…
Senza cambiamento, corpo e cervello marciscono. L’uomo che se ne sta quieto in una stanza chiusa rischia di impazzire, di essere tormentato da allucinazioni ed eccesso di introspezione.
Neurologhi americani hanno fatto l’encefalogramma a non pochi viaggiatori. E’ risultato che cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni nel corso dell’anno stimola i ritmi cerebrali e contribuisce ad un senso di benessere, di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgusto di sé e reazioni violente.
Nessuna meraviglia dunque se una generazione protetta dal freddo grazie al riscaldamento centrale e dal caldo grazie all’aria condizionata, trasportata su veicoli asettici da un’identica casa o albergo ad un altro, senta il bisogno di viaggi mentali o fisici, di pillole stimolanti o sedative, o dei viaggi catartici del sesso, della musica e dalla danza.
Passiamo troppo tempo in stanze chiuse.
Io preferisco lo scetticismo cosmopolita di Montaigne. Per lui il viaggio era “un utile esercizio; la mente è stimolata di continuo dall’osservazione di cose nuove e sconosciute… Nessuna proposizione mi stupisce, nessuna credenza mi offende, per quanto contraria alle mie… I selvaggi che arrostiscono e mangiano i corpi dei loro morti mi scandalizzano meno di coloro che perseguitano i vivi”. L’abitudine, egli dice, e la fissità degli atteggiamenti mentali ottundono i sensi e nascondono la vera natura delle cose. L’uomo è naturalmente curioso.
“Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini” dice Ibn Battuta, l’infaticabile girovago berbero che andò da Tangeri alla Cina e ritorno per il gusto di viaggiare.
Ma il viaggio non soltanto allarga la mente: le dà forma. Le nostre prime esplorazioni da bambini sono la materia prima della nostra intelligenza. I bambini hanno bisogno di sentieri da esplorare, di orientarsi sulla terra in cui vivono. Se scaviamo nella memoria dell’infanzia, ricordiamo dapprima i sentieri, poi le cose e le persone - sentieri nel giardino, la strada per la scuola, la strada intorno alla casa, corridoi attraverso l’erba alta. Rintracciare i sentieri degli animali era il principale elemento nell’educazione dell’uomo primitivo.
La materia prima dell’immaginazione di Proust furono le due passeggiate intorno alla cittadina di Illiers, dove egli trascorreva le vacanze con la famiglia. Quelle passeggiate diventarono poi la strada di Méséglise e la strada dei Guermantes nelle Recherche du temps perdu.
L’evoluzione ci ha voluti viaggiatori.
Dimorare durevolmente in caverne o castelli è stata tutt’al più una condizione sporadica nella storia dell’uomo. L’insediamento prolungato ha un asse verticale di circa diecimila anni, una goccia nell’oceano del tempo evolutivo. Siamo viaggiatori alla nascita. La nostra mania ossessiva del progresso tecnologico è una reazione alle barriere frapposte al nostro progresso geografico.
I pochi popoli “primitivi” degli angoli dimenticati della Terra comprendono meglio di noi questa semplice realtà della nostra natura. Essi sono in perpetuo movimento. I bimbi bruno-dorati dei cacciatori boscimani del Kalahari non piangono mai, sono tra i bimbi più allegri del mondo. E diventano anche, crescendo, persone mitissime. Sono felici della loro sorte, che considerano ideale, e chi parla di un “micidiale istinto alla caccia innato nell’uomo” dimostra una stolida ignoranza.
Perché crescono così bene? Perché non sono frustrati da un’infanzia tormentosa. Le madri non stanno mai ferme a lungo, e i loro bimbi non sono mai lasciati soli fino all’età di tre anni e più. Stanno vicino al seno della madre in una fascia di pelle, e il lieve ondeggiare della camminata li culla e li contenta. Quando una madre culla il suo bambino, essa imita, inconsapevolmente, la buona selvaggia che cammina adagio per la savana erbosa, proteggendo il suo piccolo dai serpenti e dai pericoli della boscaglia.
Se fin dalla nascita abbiamo bisogno di muoverci, come facciamo in seguito a stabilirci fissamente in un luogo?
Il viaggio poi deve essere avventuroso. Le asperità sono vitali. Tengono in circolo l’adrenalina.
L’adrenalina l’abbiamo tutti. Non possiamo eliminarla dal nostro organismo o pregare che evapori.
Privati di pericoli, inventiamo nemici artificiali, malattie psicosomatiche, esattori delle tasse, e, peggio di tutto, noi stessi, se lasciati soli nella stanza. L’adrenalina è la nostra indennità di viaggio. Tanto vale consumarla in modo innocuo. Viaggiando.
La cosa migliore è cammianre. Dovremmo seguire il poeta cinese Li Po “nelle fatiche del viaggio e nelle molte diramazioni della via”. La vita è un viaggio nel deserto. Questo concetto, universale fino alla banalità, non avrebbe potuto sopravvivere se non fosse biologicamente vero.
Il moto è la miglior cura della melanconia, come sapeva Robert Burton (The Anatomy of Melancholy):”Nulla nell’universo è immobile… per insegnarci che dovremmo essere sempre in movimento”.
La parola “rivoluzione”, tanto offensiva per i persecutori di Galileo, era usata in origine per denotare il passaggio ciclico dei corpi celesti. La gente, quando si ostacolano i suoi movimenti geografici, aderisce a movimenti politici. Quando una dirottatrice rivoluzionaria dice:”Io ho sposato la Rivoluzione”, parla sul serio. Perché la Rivoluzione è un dio liberatore, il Dioniso del nostro tempo. È una cura per la malinconia. La Rivoluzione è la Via della Libertà, anche se il risultato finale è una maggiore servitù.
Ogni primavera le tribù nomadi dell’Asia, si scrollano di dosso l’inerzia invernale, e tornano ai pascoli estivi con la regolarità delle rondini. Le donne si mettono nuove vesti di cotonina fiorita, e letteralmente “indossano la primavera”. I nomadi ondeggiano al ritmo delle loro selle beccheggianti, e segnano il tempo sul ritmo inistente della campanella del cammello. Non guardano né a destra né a sinistra. I loro occhi sono incollati alla via che va – oltre l’orizzonte. La migrazione primaverile è un rito. Essa soddisfa tutte le loro esigenze spirituali, e i nomadi sono notoriamente irreligiosi. La via che porta ai monti è il sentiero della loro salvezza.
I grandi maestri religiosi, Buddha nel Punjab, Cristo e Maometto nel Vicino Oriente, comparvero tra popoli le cui costanti migratorie erano state infrante dall’insediamento. L’Islam non germogliò nelle tribù del deserto, ma nelle città carovaniere, nel mondo dell’alta finanza. Ma: ”Nessuno” dice Maometto “diventa profeta se prima non è stato pastore”. Il Viaggio alla Mecca, la Vita Apostolica e il Pellegrinaggio a un centro religioso furono istituiti per compensare la mancanza di migrazioni, e portarono agli estremi imitatori di Giovanni Battista, “vaganti nel deserto con le bestie selvatiche come se fossero animali essi stessi”.
Da allora, la gente staziale è tornata a idilli arcadici, o ha cercato l’avventura nell’”interesse” del proprio paese, imponendo ad altri, a sproposito, la stabilità che non riusciva a sopportare in patria. Vagabondi costeggiano le strade da qui a Katmandu, ma chi se ne lagna dovrebbe ricordare l’inguaribile irrequietezza studentesca dell’Europa medievale. Per l’Università di Parigi era una fortuna arrivare alla fine di un anno accademico senza chiudere i battenti. “Gli studenti erano armati” lamenta un rettore. “Quando in estate tornavo a casa da scuola,” dice uno studente “mio padre a stento mi riconosceva, tanto ero annerito dal girovagare sotto il sole”.
I sufi si dicevano:”viaggiatori in cammino” e usavano la stessa espressione usata dai nomadi per il loro percorso di migrazione. Portavano anche le vesti di lana dei nomadi. L’ideale di un sufi era camminare come un mendicante o raggiungere con la danza uno stato di estasi permanente, “diventare un morto che cammina”, “uno che è morto prima della sua ora”. “Il derviscio” dice un testo “ è un luogo sul quale passa qualcosa, non un viandante che segue la sua libera volontà”. Questo pensiero è affine al concetto di Walt Whitman:”O strada pubblica, tu mi esprimi meglio di quanto io esprima me stesso…”. Le danze vorticose dei dervisci imitavano i moti del sole, della luna, dei pianeti, e delle stelle. “Chi conosce la danza conosce Dio” dice Rumi.
I dervisci in estasi credevano di volare. I loro costumi di danza erano adorni di ali simboliche. Talvolta le loro vesti erano deliberatamente sbrindellate e rappezzate. Ciò denotava che chi le indossava le aveva lacerate nel furore della danza. Danzare è andare in pellegrinaggio, e la gente balla di più nei periodi di crisi. Durante la Rivoluzione Francese Parigi si diede al ballo con un fervore che ha pochi esempi nella storia.
I giochi agonistici sono anch’essi pellegrinaggi. In sanscrito una stessa parola designa il giocatore di scacchi e il pellegrino, “colui che raggiunge la sponda opposta”. I calciatori non sanno di essere anch’essi dei pellegrini. La palla che calciano simboleggia un uccello migratore.
Tutte le notre attività sono legate all’idea del viaggio. E a me piace pensare che il nostro cervello abbia un sistema informativo che ci dà ordini per il cammino, e che qui stia la molla della nostra irrequietezza. L’uomo ha scoperto per tempo di poter spillare tutta questa informazione d’un colpo, manomettendo la chimica del cervello. Di poter volare via in un viaggio illusorio o in un’ ascesa immaginaria. Di conseguenza gli stanziali hanno ingenuamente identificato Dio con il vino, con l’hashish o con un fungo allucinatorio; ma di rado i veri vagabondi sono caduti in preda a questa illusione. Le droghe sono veicoli per gente che ha dimenticato come si cammina.
I viaggi reali sono più efficaci, economici e istruttivi di quelli fittizzi. Dovremmo seguire i passi di Esiodo su per il Monte Elicona, e udire le Muse. Se ascoltiamo attentamente appariranno di certo.
Dovremmo seguire i saggi taoisti, Han Shan che nella sua piccola capanna sulla Montagna Fredda osserva il passare delle stagioni o il grande Li Po – “Mi hai chiesto per quale ragione abito nelle colline grigie: ho sorriso ma non ho risposto, perché i miei pensieri bighellonavano per conto loro; come i fiori del pesco erano andati a spasso in altri climi, in altre terre che non fanno parte del mondo degli uomini”.