giovedì 25 febbraio 2010

Credo a tutto e a niente

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Io credo a tutto e a niente allo stesso tempo, e chiedermi perché io abbia quella tale opinione non ha senso, perché io credo che sia vero anche il contrario. 
E’ come interpellare un religioso convinto e un ateo altrettanto convinto, e chieder loro di spiegare le ragioni della loro convinzione: entrambi si prodigheranno in profondissime e impeccabili spiegazioni, siano esse logiche o metafisiche, e per ogni affermazione dell’uno l’altro avrà pronta una risposta, e così via; la realtà è che di qualunque cosa si può dimostrare il contrario (e alla fine essere religioso o ateo è comunque sempre un atto di fede, giacchè nessuno può dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni): non esiste una Verità assoluta inattaccabile, e il fatto che uno sia religioso o ateo è fondamentalmente un caso, generato dalla storia personale del soggetto, dei suoi genitori, del popolo presso cui è nato e cresciuto, dalla cultura e dalla educazione impartitegli, dalla genetica, ecc.
In fondo quello che siamo, o pensiamo di essere, è solo una delle possibili configurazioni del nostro Io, e l’ateo e il religioso si identificano in quella casualità senza accorgersi che, se lo volessero, potrebbero essere benissimo qualunque altra cosa.
La differenza tra me e loro sta nel fatto che io ne sono consapevole, e quindi non ho una considerazione pregiudizievole di me stesso o degli altri. Ritenersi qualcosa o qualcuno è solo un’illusione, così come lo è qualunque valutazione etica o morale delle nostre azioni e del mondo.
Il mondo è costituito di fatti, e i fatti accadono e si manifestano in quegli altri fatti che sono le nostre proposizioni significanti. Così i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo oggettivo, e i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, cioè di tutto quello che io posso capire, pensare ed esprimere. 
I fatti costituiscono il come del mondo, non la sua essenza, il suo valore, il suo perché. E quanto al valore, che è un dover essere, non è mai un fatto, e se è un fatto cessa di essere valore, così che nel mondo non c’è alcun valore oggettivo, e se ci fosse non avrebbe valore. 
Non ci possono quindi neppure essere proposizioni di etica, l’etica è inesprimibile poiché non esistono fenomeni morali, ma solo interpretazioni morali di fenomeni. 
Né si può parlare della morte: non si può vivere la morte. 
Pertanto tutti i problemi relativi al mondo, alla vita, alla morte e ai fini umani non si possono porre neppure, non possono trovare risposte perché non sono domande.


venerdì 19 febbraio 2010

Saint-Exupéry e la percezione selettiva


« …ciò che è essenziale è invisibile all’occhio »
Ma cos’è che ci impedisce di vedere l’essenziale?
Io credo: la nostra cultura, la nostra conoscenza, il nostro linguaggio, le nostre percezioni, tutto quello che ha fatto e continua a fare per noi il nostro sistema nervoso.
Sì, perché in realtà la funzione del nostro sistema nervoso centrale non è lasciare entrare le cose, ma escluderle, filtrarle. Si chiama “percezione selettiva”.
Fin da piccoli impariamo a percepire solo una piccolissima parte della realtà che ci circonda, e per tutta la vita applichiamo sempre lo stesso schema di lettura. Ma la cosa più drammatica è che crediamo fermamente che esista soltanto quello noi percepiamo!
Eppure consideriamo reale anche il nostro ego, l’io che abbiamo costruito. Ma non siamo stati noi a costruire quell’io. E’ stato qualcun altro: ci è stato insegnato chi dovevamo essere, come dovevamo fare tutto ciò che facciamo,  quello in cui dovevamo credere, quello che è importante per noi e persino il modo di desiderarlo e di raggiungerlo!
In Oriente dicono “Lascia il tuo ego fuori dalla porta”, solo così arriveranno messaggi nuovi.
L’io costruisce intorno a sé muraglie enormi per proteggersi dalla realtà: tutto ciò che non si armonizza con quello che l’io considera reale, non passa la muraglia, e così quando la nuova percezione entra è diventata ciò che l’io voleva che fosse. Perciò continuiamo a procedere attraverso la vita vedendo ciò che vogliamo vedere, udendo ciò che vogliamo udire, percependo ciò che vogliamo percepire.
Laing diceva che fin dalla nascita veniamo programmati per diventare quel preciso essere umano,secondo la definizione della società, dei genitori e degli educatori. Ma la cosa più incredibile è che finiamo per identificarci in quel programma! Ci sono persino persone disposte a morire per difendere quel programma!!!
Ornstein diceva: “I nostri sensi pongono limiti, il nostro sistema nervoso pone limiti, le nostre categorie personali e culturali pongono limiti, il nostro linguaggio pone limiti, e, come se non bastasse, le leggi della scienza ci inducono a sostenere informazioni selezionate che noi consideriamo vere, e anche questo pone limiti".
Dunque come possiamo pensare di poter vedere?



mercoledì 10 febbraio 2010

Scelte, tabelle e lumache

Una volta ho partecipato ad un seminario di una “setta” filosofica (non è il termine giusto, ma al momento non mi viene in mente nient’altro). Il fondatore di questa, diciamo, “scuola di pensiero” si propone di aiutare le persone a raggiungere la propria completezza di essere umano con una filosofia di vita di cui non ricordo il nome. In realtà si era limitato ad assemblare un po’ di idee e di pratiche qua e là per il mondo, dal taoismo alla sciamanesimo, ma questo adesso non ci interessa. 
Il seminario era tenuto proprio dal fondatore stesso, e ad un certo punto ha rivolto questa domanda ai partecipanti: “State camminando sul ciglio di una strada, quando vi imbattete in una lumaca che sta cercando di attraversare. Cosa fate: la lasciate andare rispettando la sua libertà o la raccogliete portandola in salvo?”
La platea ovviamente si divide in due, chi a favore della prima ipotesi chi della seconda. Il fondatore lascia esprimere i vari pareri, poi spiega la “giusta” via:
“Dovete lasciarla stare perché ognuno di noi è responsabile solo della propria vita, nessuno si deve assumere la responsabilità della vita degli altri, né tantomeno limitare la libertà di scelta degli altri. Se la lumaca ha scelto di attraversare la strada avrà il suo motivo per farlo, e se glielo impediamo, anche a fin di bene, che in questo caso è il preservarla da un possibile schiacciamento da pneumatico, stiamo ledendo la sua libertà. Il principio in sé di voler aiutare gli altri è ammirevole, ma, a prescindere dal fatto che ci sarebbe comunque impossibile preservare tutti da qualunque pericolo (magari, ad esempio, riportiamo la lumaca sul ciglio, passa una bici, e la uccide lo stesso), è più importante rispettare le scelte altrui. Tutto questo significa inoltre che noi siamo i soli responsabili di quello che ci accade, e pertanto non ha senso prendersela con chicchessia per quello che viviamo”.
Ovviamente chi la pensava in un modo continuava a pensarla in quel modo e chi nell’altro nell’altro… la discussione tra le due fazioni occupa praticamente quasi tutto il tempo del seminario.
Ora, io ritengo che in realtà nessuno dei due ha ragione, e tutt’e due ce l’hanno... Nel senso che non esiste una risposta assoluta, che funzioni comunque sempre. Dipende dalla situazione, dalla motivazione della lumaca, da chi sei tu e perché ti trovi lì, magari un giorno può essere corretto “salvare” la lumaca perché in quel momento era solo distratta o stava sbagliando strada, ma magari, già solo il giorno dopo, la stessa identica lumaca vuole attraversare la strada nello stesso punto perché dall’altra parte c’è la lumaca della sua vita che l’aspetta, e quindi non sarebbe più corretto “salvarla”, perché magari quella lumaca preferirebbe morire piuttosto che vivere senza la sua compagna. Le motivazioni che spingono qualcuno a fare qualcosa possono essere infinite, ed è semplicemente ridicolo decidere a priori come comportasi di fronte a determinate situazioni, come una specie di tabella comportamentale… e se, ad esempio, quella situazione assomigliasse solo a quella indicata nel manuale? Ma non è esattamente quella? Quante volte nella storia dell’Universo si sono ripetute esattamente due situazioni identiche?
Per questo mi fanno sorridere quelli che distribuiscono modelli comportamentali, siano essi di natura filosofica, religiosa, spirituale o etica.

venerdì 5 febbraio 2010

Eco, Peirce e l'Ornitorinco


Ne « Il nome della rosa » Eco fa dire a Gugliemo da Baskerville : « Il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci della passione insana della verità ».
« … si potrebbe insinuare il sospetto che dietro la Voce che parla ci sia una Cultura precedente che ha fissato le stesse regole dell’interpretazione e ci ha insegnato, per convenzione, a riconoscere come Voce quello che era caso, dato di natura o meccanismo inconscio delle nostra mente già educata »
« … anzichè ipostatizzare come leggi logiche delle leggi estrapolate dalle leggi linguistiche ci si domanda se non siano proprio le leggi di una data lingua storica a imporre un certo modo di pensare »
« Sennonché, come agisce l’uomo sul mondo ? Per mezzo di nuovi segni. E come può l’abito finale essere descritto se non per mezzo di segni definizionali ? L’uomo è il suo linguaggio, perché la cultura si costituisce come sistema di segni. Anche quando crede di parlare, l’uomo è parlato dalle regole dei segni che usa »
Ciò che ci sembra particolarmente degno di riflessione è che il modello di accrescimento del sapere proposto da Peirce e ripreso da Eco, può arrivare a porre sullo stesso piano e legittimare forme di esperienza come quelle artificiali, artistiche e virtuali. Ad esempio la visione di un film o di un quadro o di una performance d’arte moderna, possono modificare la nostra visione del mondo, la nostra interpretazione e, col tempo, le nostre abitudini interpretative.
Anche le azioni mentali più elementari, come le sensazioni e le percezioni, lungi dall’essere delle immediate ‘impressioni dei sensi’, sono in effetti rappresentazioni selettive delle impressioni sconnesse esercitate dagli stimoli sui centri nervosi.
« Lo stesso Aristotele era nondimento cosciente del fatto che si possono dare definizioni dello stesso fenomeno facendo riferimento a cause diverse, a seconda del tipo di domanda che si pone… »
Il modo in cui interroghiamo il mondo determina le risposte possibili che riceviamo.
La verità è in ogni caso un concetto culturale, un’espressione che ha un senso all’interno di un contesto linguistico-culturale dato, tanto più esteso o ristretto a seconda del livello di complessità e precisione con cui si vuole rappresentare un determinato oggetto.
Del fissarsi della credenza è l’interessante saggio con cui Peirce illustra i diversi modi con cui si passa dal dubbio alla credenza. Il metodo della tenacia consiste nell’aggrapparsi ostinatamente alle opinioni precedentemente accettate, evitando il contatto con quanto potrebbe disturbare tali credenze.
Il metodo dell’autorità fa sì che di fronte alla constatazione della diversità delle opinioni altrui e al vago sospetto che forse le opinioni degli altri possano valere quanto le proprie (…), l’individuo sceglie di ancorare le proprie credenze a quelle di un’autorità superiore (un capo, una istituzione, una dottrina, un testo sacro…) : ‘ci credo perché l’ha detto lui’, riconoscendo a quegli interpreti una compentenza superiore.
Per Peirce ‘reale’ è un concetto che abbiamo avuto per la prima volta quando ci siamo imbattuti in un nostro errore e ci siamo autocorretti. L’esigenza di autocorrezione emerge quando ci si rende conto dell’inadeguatezza delle proprie credenze rispetto agli stimoli del mondo esterno.
Ogni nostra conoscenza circa il mondo è sempre provvisoria e riformulabile.
Ma la questione è : esiste un mondo reale che non sia quello delle nostre credenze ? O meglio : esiste un sapere non basato sul meccanismo della credenza ? Peirce crede di no, e basa su questo la teoria del conoscere. Il mondo è il mondo delle nostre credenze. Peirce lo ribadisce spesso e con grande chiarezza : « … l’irritazione del dubbio causa una lotta per ottenere uno stato di credenza. Il solo obiettivo della ricerca, quindi, è lo stabilirsi di una opinione. Possiamo immaginare che questo non ci basti, e che noi ricerchiamo non meramente un’opinione, ma un’ opinione ‘vera’… Appena si raggiunge una credenza stabile, infatti, noi siamo soddisfatti, che la credenza sia vera o falsa. Ed è chiaro che nulla che si trovi fuori dalla sfera della nostra conoscenza può costituire il nostro obiettivo, perché nulla che non incida sulla mente può essere il motivo per uno sforzo mentale. Quello che tutt’al più si può sostenere è che noi andiamo alla ricerca di una credenza che penseremo vera. Ma noi pensiamo che ciascuna delle nostre credenze sia vera, e dire questo è, in verità, una mera tautologia »