venerdì 17 settembre 2010

Non possediamo il numero giusto

I figli di Prajapati ora pensavano al Padre. Non avevano voluto conoscerlo. Ora ne sentivano l’assenza. La sua eredità era tutto, ma un tutto frantumato. 
Il Padre disse: ”Voi non sapete ricompormi in tutte le mie forme. Mi fate in eccesso o in difetto. Perciò non diventerete immortali”. Qui tacque, mentre gli dei sprofondavano nell’angoscia. 
Poi Prajapati riprese a parlare:”Prendete trecentosessanta pietre di recinzione e diecimilaottocento mattoni, tanti quante sono le ore dell’anno (un muhurta dura quarantotto minuti). Ogni mattone ha un nome. Disponeteli in cinque strati. Aggiungetene altri fino a che siano undicimilacinquecentocinquantasei ...”. 
Quel giorno Prajapati enunciò come doveva essere edificato l’altare del fuoco. 
I figli di Prajapati, prima gli dei e poi gli uomini, capirono quel giorno che per vivere occorreva innanzitutto ricomporlo e ricomporsi, ricostruire pezzo per pezzo il proprio corpo e la propria mente. Perché, se Prajapati si era disperso e disarticolato ovunque nel mondo, come potevano essi, pulviscolo delle sue ossa, pretendere di non essere dispersi e disarticolati?
Di questo si trattava: costruire un immenso rapace composto di mattoni; come avrebbero potuto altrimenti conquistare il cielo?
E qui li soccorse l’etimologia amica del pensiero. Mattone dicevano: citi. Ma che cos’è citi? E’ cit, che significa “pensare intensamente”. 
Ogni mattone squadrato e cotto era un pensiero. La sua consistenza era lo spessore dell’attenzione. Ogni pensiero aveva il profilo di una pietra. Non spariva, non si lasciava inghiottire dal mulinello della mente. Diventava qualcosa su cui poggiare. Su di esso poggiava il pensiero successivo. E lentamente si innalzava una parete.
Questo significa: l’altare del fuoco. Ma fu così? Non potremo dirlo mai.
Perché? Quando arrivavano a quel punto, il tempo si era esaurito, l’anno si estingueva. Occorreva ricominciare. Tutti i sacrifici sono insufficienti per diventare immortali, eccetto la costruzione dell’altare del fuoco, perché usano troppi o troppo pochi elementi. Non possiedono il numero giusto.
E il numero giusto è quello che corrisponde alla totalità del tempo.

Ma che cosa ci dà questa fiducia, sraddha, nel numero e nella costruzione?
Visti da lontano sembriamo muratori dementi, osservati da vicino siamo una sfida a trovare il senso.

(R. Calasso)



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