giovedì 29 dicembre 2011

Non chiedetemi scusa

"Non mi piace quando qualcuno mi chiede scusa. Non per il gesto in sé, che è molto apprezzabile, ma per la parola e per il significato psicologico sotteso. Ritengo che chiedere scusa sia una sorta di ricatto emotivo. A ben pensarci “scusami” vuol dire “perdonami”, non contempla quindi la propria responsabilità per quello che è successo e tende invece a scatenare sensi di colpa nell'altra persona.
È un modo semplicistico di lavarsene le mani e far ricadere la responsabilità sull’altro. Ti ho chiesto scusa, se non mi perdoni sei crudele.
In altre parole, chi chiede scusa si appella al condizionamento psicologico e blocca qualsiasi reazione emotiva, invocando il perdono. Se non ti scuso, rischio di sentirmi colpevole o al meglio di covare emozioni negative che non posso esprimere.
Così la comunicazione vera e propria, quella che permette di crescere e di capirsi, si blocca. Posso scusarti o no, ma sarebbe finita lì. E se anche rispondessi “scusa un cazzo”, sarei comunque sulla difensiva, tenderei a giustificarmi o passerei dalla parte dell’aggressore. L’altro si sentirebbe vittima, arrivando ad affermare “ma ti ho chiesto scusa!”, come se fosse un atto dovuto perdonare sempre.
Credo che sia più appropriato “mi dispiace”. Questa locuzione infatti non richiede necessariamente un perdono e non blocca la comunicazione. Esprime semplicemente un modo di sentirsi, in questo caso il dispiacere per un comportamento, una parola o un gesto, e l’altra persona è libera di provare i suoi sentimenti, compresa la rabbia."

Ho letto questo testo su Tumblr e l'ho trovato di estremo interesse. Perché anch'io ritengo che le parole abbiano in sé un valore che va ben oltre il suo mero significato letterale, Perché, come diceva Nanni Moretti, le parole, la scelta della parole è importante. Il significante è determinante quanto il significato, se non di più.

venerdì 16 dicembre 2011

Le parole inutili

Il mondo pullula letteralmente di belle frasi pseudo-educative che fan sognare le persone. Frasi di una retorica sconcertante ma di fronte alle quali la più parte si scioglie in deliquio. Frasi come: "La felicità è desiderare ciò che già si ha". Frasi così inutili da sfiorare l'insulto all'intelligenza umana, Posto che ne esista una.
Sì, perché ancora le persone non sembrano aver capito che chi ha già nel suo schema mentale la capacità di apprezzare e accontentarsi, se non addirittura di godere, delle cose che ha già, all'udire simile sentenza penserà: "Beh, certo, ovvio! che c'è di così stravolgente?". Mentre a chi invece questa capacità non ha la fortuna di possedere nel suo corredo genetico, l'ascoltare questa frase procurerà solo frustrazione, giacché gli risulterà enormemente arduo, se non impossibile, applicarlo alla sua vita.
Senza comprendere (o forse comprendendo ma non ammettendo) che non esistono ricette di felicità universali che valgono per tutti (anche se ci piace crederlo, o forse ci condizionano a pensarlo...), che magari si può essere felici in altro modo o per un'altra via... ma no! deve cercare in tutti i modi di applicare su di sé quello che sembra essere un insegnamento assoluto, tentando quindi di snaturarsi e aggiungendo ulteriore sofferenza alla sofferenza.
Mi ricordano un po' l'inutilità delle campagne di sensibilizzazione contro l'abbandono dei cani. Tutti quei soldi spesi per niente. Per realizzare degli spot il cui solo effetto è quello di far soffrire chi ha già quella sensibilità e che quindi mai abbandonerebbe un cane, mentre le persone che quella sensibilità non l'hanno restano perfettamente indifferenti al messaggio e continuano ad abbandonare cani. Lo dimostra ampiamente il fatto che il numero di abbandoni è più o meno sempre lo stesso tutti gli anni.
Così come il numero di persone che tutti gli anni vanno dall'analista perché non riescono ad applicare nella propria vita quella ricetta di felicità "universalmente" riconosciuta come funzionante...

giovedì 8 dicembre 2011

Il pappagallo di Paul Valéry

Per anni, quasi per tutta la vita, Valéry accarezzò l'idea di disegnare personalmente un'ampia "teoria della memoria" allo scopo di sondare le leggi di questa misteriosa facoltà. Ma quest'opera non la scrisse mai, anche se è chiaramente riconoscibile o almeno deducibile nelle sue linee generali, negli appunti dei suoi Quaderni.
Le quattro massime che seguono (tratte appunto dai Quaderni) delimitano all'incirca il terreno che Valéry misura con le sue riflessioni su ricordo e oblio:
- "Non sappiamo nulla della memoria, nulla di nulla"
- "La memoria sarebbe un'ineleganza nel mio sistema"
- "La memoria non ci servirebbe a niente se fosse rigorosamente fedele"
- "Senza oblio si è solo pappagalli"
Orientiamoci ora verso un'immagine figurata che l'autore cita spesso, in diversi passi delle sua opera e che evidentemente era importante per lui. Si tratta dell'immagine del pappagallo. Nella storia della cultura europea il pappagallo era, già dagli albori dell'età moderna, il successore dell'asino, quindi l'animale stupido per antonomasia; tuttavia il pappagallo aveva la caratteristica non solo di godere, come l'asino, di ottima memoria, ma anche - come se non bastasse - di essere in grado, col suo aiuto, di blaterare le sue stupidaggini.
Incontriamo questo uccello parlante in diversi punti delle opere di Valéry, per esempio nel dialogo in prosa L'idée fixe (1932). L' "idea fissa" di uno dei partecipanti al dialogo consiste nel dichiarare guerra ai concetti imprecisi perché rovinano il pensiero. Questa debolezza del nostro linguaggio concettuale può essere guarita solo, secondo Valéry, ponendosi, ogni volta che un pensiero minaccia di naufragare a causa della sua imprecisione, la precisa domanda: "Che cosa significa esattamente questo termine?". Di fronte a questa domanda, concetti tronfi e presuntuosi come "spirito", "personalità", "speranza" o "universo" faranno sicuramente una figuraccia. Questo tipo di parole vengono chiamate da Valéry "parole da pappagallo".
Per farla finita con queste parole indegne, Valéry ha affilato le armi per infilzare tutti i pappagalli che popolano il "cielo dello spirito", in primo luogo il super-pappagallo "universo", il pappagallo dei pappagalli, ma subito dopo anche la parola "natura", altrettanto deleteria, da interpretarsi come femmina del pappagallo e da eliminare anch'essa immediatamente.
Perché? Perché queste parole sono tali per cui uno che le ha imparate una volta continua a ripeterle sempre: "Nous les avons appris, nous les répétons" ("Le abbiamo imparate, le ripetiamo").
Valéry aborre le ripetizioni di ogni genere e non è mai stanco di giudicare insulsa l'attività del ripetere. Tra le sue varie asserzioni di questo tenore si può citare questa annotazione: "Lo spirito aborre la ripetizione; nella misura in cui ci si ripete, non c'è spirito". Per scampare questo pericolo Valéry segue in maniera quasi maniacale la regola radicale di "cominciare dall'inizio" in tutte le attività intellettuali.
Anche la memoria deve essere ripensata dall'inizio. E tale inizio si trova nel presente.
Il processo si realizza nel momento in cui il presente inizia a riallacciarsi al passato nella misura in cui interviene all'interno di esso, imponendogli in questo modo un nuovo ordine, conforme e gradito agli scopi del presente. Dal momento però che l'azione presente è in linea di principio aperta al futuro, si può anche dire che nella memoria vivente il futuro plasma il passato: l'avenir du passé ("il futuro del passato"). In questo contesto Valéry non si lascia sfuggire il gioco di parole: le souvenir de l'avenir.
Garante di questa ricerca è per Valéry un'altra figura letteraria: Robinson Crusoe. Gli appunti di Valéry su Robinson abbracciano circa dieci pagine di prosa sotto il titolo di "Storie sbriciolate". Sulla sua isola solitaria Robinson ha ottenuto i primi risultati nella costruzione della cultura materiale e può concedersi per la prima volta un po' di riposo. Comincia ora per lui la seconda fase della costruzione, la ricostruzione della propria cultura intellettuale. Deve "ridiventare uomo". In questa operazione l'oblio ricopre nuovamente un ruolo chiave.
La questione è ora: a che cosa questo nonostante tutto felice Robinson, nel suo inizio intellettuale dal nulla, permetterà di entrare nel vuoto della sua memoria, dopo che a lui, novello Adamo, si è parata innanzi l'insperata chance di liberarsi da tanti inutili contenuti mnemonici?
Lo rivediamo quindi seduto nella sua isola, immerso nei pensieri, circondato da pappagalli il cui cicaleccio consiste solo in innumerevoli e distraenti ripetizioni.



Ascolta "Il pappagallo di Paul Valéry" su Spreaker.

mercoledì 23 novembre 2011

Ricordati di dimenticare

Dalla forma verbale oblivisci deriva in latino il sostantivo oblivio "oblio", che si ritrova anche in molte locuzioni come: in oblivionem venire "cadere nell'oblio" o aliquid oblivioni dare "consegnare qualcosa nell'oblio". Dalla forma verbale tardolatina oblitare dipende buona parte della famiglia linguistica romanza dell'oblio. Lo si vede in maniera chiara nella storia della lingua francese, nella quale il latino oblitare continua in oublier. A questo verbo si unisce come derivazione deverbale un nuovo sostantivo: oubli "oblio", dal quale deriva a sua volta l'aggettivo oubliuex e altre derivazioni secondarie. Costruzioni parallele al francese sono, in spagnolo e portoghese, olvidar / olvido.
La lingua italiana presenta l'interessante fenomeno di procedere su due binari. Sul modello dell'antico francese ha coniato infatti le forme obliare e oblio, entrambe appartenenti ad un uso linguistico letterario, mentre il termine dimenticare è diventato da tempo di uso comune nel linguaggio parlato, usato spesso nella forma pseudo-riflessiva dimenticarsi. Si tratta di una derivazione designata negativamente tramite il prefisso negativo di-, da mente, che in tempi antichi aveva il significato di "memoria". Il termine dimenticare può essere quindi parafrasato come"perdere dalla mente".
Analogamente a dimenticare, anche il verbo scordare / scordarsi è una derivazione negativa, questa volta di cuore. Nella psicologia antica il cuore era considerato la sede della memoria, ancor oggi in francese "imparare a memoria" si dice par cœur. Il significato del verbo scordare può quindi essere parafrasato come perdere dal cuore.
Stupisce nell'insieme costatare come le espressioni della lingua italiana per l'oblio siano illuminate da una luce negativa.
Le lingue germaniche seguono altre strade, altrettanto dense di significato. Lo si vede nel verbo inglese forget. Esso è composto dal verbo (to) get "ricevere" in unione col prefisso for che converte il movimento "da" del verbo semplice in un movimento "verso". Il suo significato può quindi essere parafrasato come "allontanare qualcosa". E' già quasi una definizione dell'oblio. La stessa costruzione verbale è alla base del verbo tedesco vergessen. Vale la pena di citare un modo di dire che, tanto in inglese quanto in tedesco, ha ampio uso quotidiano, si tratta dell'espressione inglese forget it ("dimenticalo"), che corrisponde al tedesco das kannst du vergessen ("puoi dimenticarlo"). Si usano queste espressioni in situazioni in cui, accompagnandosi con un gesto di grazioso sdegno, si dice dell'una o dell'altra cosa che non è così importante e non merita d'esser presa in considerazione.
Dal momento che le espressioni dell'oblio possono essere interpretate anch'esse, fino ad un certo grado, come negazioni lessicali della memoria, il legame con una negazione grammaticale (non dimenticare la chiave) produce una doppia negazione con significato affermativo (pensa alla chiave).
Una considerazione speciale merita inoltre il greco antico. Esso ci offre l'interessante apertura verso un termine che, in questo contesto, suona a prima vista come estraneo. Intendo il termine aletheia "verità", che nel pensiero dei filosofi greci assume naturalmente una posizione centrale. Il primo elemento di questo termine a- è un prefisso di negazione (alpha privativum); l'elemento seguente, ovvero -leth- indica qualcosa di latente, di nascosto, di segreto, così che la verità diventa (come in Heidegger) ciò che non è nascosto, non è segreto, non è latente. Va notato inoltre che l'elemento -leth- è anche all'origine del nome del fiume Lete, il fiume dell'oblio, e in quest'ottica la "verità" diventa il "non-dimenticato".
Di fatto il pensiero filosofico europeo, seguendo i greci, ha cercato per secoli la verità dalla parte del non-oblio, cioè della memoria e del ricordo, e solo nell'età moderna ha fatto il tentativo, più o meno timido, di attribuire una certa verità anche all'oblio.
Per i greci Lete è una divinità femminile che forma una coppia di opposti con Mnemosyne, dea della memoria e madre delle Muse. Secondo la mitologia, Lete nasce dalla stirpe della Notte, ma non possiamo evitare di nominare anche il nome di sua madre: la Discordia. La genealogia gioca però una parte limitata nella ricezione di questo mito, poiché Lete è soprattutto il nome di un fiume degli inferi, che dispensa oblio alle anime dei morti. In questa immagine e in questo campo metaforico l'oblio è completamente immerso nell'elemento liquido dell'acqua.
C'è un significato profondo nella simbologia di quest'acqua magica: nel suo dolce fluire si sciolgono i duri contorni dei ricordi di realtà, che vengono così liquefatti.


Listen to "Ricordati di dimenticare" on Spreaker.

mercoledì 26 ottobre 2011

La dottrina consolatoria

Esiste una meschina incredulità che si dà l'aria di una dottrina salutare. Essa ritiene che gli avvicinamenti siano casuali e non significhino altro che un felice incontro delle diverse forze che agiscono nel gioco della vita. Essa ritiene che siano vissuti molti poeti i quali sarebbero diventati immortali non meno di Omero se quello stupendo soggetto non fosse stato assorbito da lui, e molti compositori che sarebbero diventati immortali come Mozart se ne avessero avuta l'occasione.
Questa saggezza contiene però una gran consolazione ed un gran conforto per ogni spirito mediocre, che così trova modo di far credere agli altri e a se stesso che solo per un capriccio del destino, o per uno sbaglio del mondo egli non è riuscito a distinguersi come i grandi-

domenica 16 ottobre 2011

Nessun pensiero regge da solo

Nietzsche escluse la razionalità non soltanto perché la scienza ha dei limiti, ma perché nessun pensiero regge da solo: esige un'interpretazione, e così svela d'essere illusorio e comunque non riesce ad afferrare l'informulabile divenire, è costretto a fingersi un'identità e un essere, mostrandosi in tal modo superfluo (qualcosa è illogico? mostra semplicemente una sua condizione d'esistenza), pericoloso (che disastri si provocano agendo secondo ragione!), incapace (si dice che la ragione condurrebbe alla tolleranza? chi tollera dipende dalla propria ragione...).
(Jaspers, 1996)

domenica 25 settembre 2011

La maniera Furoshiki

Il furoshiki è un panno quadro che in Giappone viene utilizzato per avvolgere un oggetto o un insieme di oggetti: regalo, necessario da viaggio, cambio d'abito, spesa, contenuto di borsa. Tutto vi si avviluppa ripiegando i quattro angoli alla maniera giapponese per cui un pacchettino si trasforma in offerta. Maniera che può sembrare complicata ma che risponde ad una semplicità severa. La razionalità giapponese nel furoshiki rivela mistero e flessibilità, oltre a un disegno incantevole.
La ragione occidentale invece non avvoltola, non modella, non compone, ficca in una squadrata valigia che serra con uno scatto, chiude in una tomba.
Nella nostra cecità interpretiamo persino lo yin e lo yang come una diade, senza capire che in realtà si tratta di una trinità: lo yin, lo yang e l'unione dei due.
In Oriente d'istinto si schiva il dualismo, sostituendolo con la triade. Male-bene cede alla contrapposizione tra lo scatenamento e l'equilibrio delle forze in campo; menzogna-verità si stempra nel proverbio "Anche la bugia è un mezzo", che allude ai "mezzi" con i quali il Buddha indirizzava alla verità.
Così interpretata, la vita si fa duttile, discreta, gentile.

martedì 20 settembre 2011

Volontà e verità

La nostra ragione non può giungere a dimostrazioni irresistibili, che non implichino il concorso della volontà: noi raggiungiamo infatti la verità sempre in forme relative e parziali.
Ma d'altra parte non possiamo neanche negare ogni verità, poiché il pensiero stesso con cui negassimo l'esistenza di ogni verità vorrebbe esser vero.

sabato 3 settembre 2011

Eros e musica

Eros e musica non si conciliano con l'etica. Solo la musica può esprimere la vita del desiderio, dal suo albeggiare come vago sogno, fino alla luce abbagliante della brama che richiede il possesso. La parola, strumento soprattutto logico, malamente si piega ad esprimere l'immediatezza estetica dell'eros, anche se essa, come espressione spirituale, è superiore alla musica.
La sensualità è, nel cristianesimo, ciò che deve venir negato. Ora ogni posizione pone indirettamente ciò che essa esclude, e così, anche la sensualità acquista realtà positiva mediante la posizione del contrario che la esclude. Di qui la conclusione, apparentemente paradossale ma storicamente stimolante, che la sensualità come principio, come forza, come sistema, sia stata posta per la prima volta dal cristianesimo. In questo senso il cristianesimo, che ha asceticamente cacciato la sensualità dal mondo, è anche quello che ve l'ha portata, perché la sensualità è divenuta il correlato d'obbligo dello spirito solo mediante il cristianesimo.
La sensualità, beninteso, è sempre esistita, ma fuori dell'antitesi con lo spirito, non determinata o stigmatizzata da esso. L'eros greco non si fonda sulla sola sensualità e non la incarna in un unico individuo rappresentativo. L'idea di rappresentare l'erotismo sensuale in un individuo è nata in seno al cristianesimo, e questo erotismo sensuale, determinato spiritualmente come principio, come forza, come regno, concentrato in un unico individuo, dà origine all'idea, tutta cristiana e sconosciuta alla grecità, della genialità erotico-sensuale, che non può essere espressa, nella sua immediatezza, altro che dalla musica.
Se la si volesse esprimere mediatamente e in forma riflessa, essa cadrebbe nella sfera del linguaggio e si subordinerebbe a determinazioni etiche. Nella rappresentazione della genialità erotico-sensuale la musica esprime più felicemente la sua essenza, anche se naturalmente può esprimere infinite altre cose.
Per questa dialettica degli opposti, la musica è, nel senso più rigoroso, un'arte cristiana, quell'arte cioè che il cristianesimo pone in quanto esclude. La musica è il medium di ciò che il cristianesimo esclude da sé e quindi pone: il demoniaco. L'animo religioso dovrebbe allontanarsi dalla sensualità della musica ed esprimersi nella forma più spirituale della parola.
Non abbiamo qui una teoria della musica, ma un suo simbolico ufficio o sacrificio sull'altare immaginario di una sessualità liricamente sfrenata e incontenibile.

martedì 30 agosto 2011

Armonia discorde

Anche il finito ha la sua poesia e il suo valore, e l'umana società il suo senso immanente, al di là dell'antitesi col mistero della trascendenza, anzi, in armonia discorde con esso.
La scepsi è un richiamo ad un pensare concreto, che ha le sue radici nell'esistenza, che accetta la contraddizione e l'irrazionalità, l'aporia e il paradosso, perché tale è l'esistenza, scissa tra radicali antinomie, che nessuna sintesi e nessun sistema concilia se non a spese della verità.
Ogni sistema di pensiero, più si fa perfetta e armonica la sua armatura concettuale, più si nega alla vita e all'esperienza, che non si lasciano rinserrare in alcun sistema logico conclusivo. Dalle maglie del sistema evade la problematicità dell'esistenza, perché la sua logica sconta il mito di una trasparente intelligibilità, in cui tutto si connette, si armonizza e si concilia, con la sua rottura, col suo naufragio, per cui ogni singola realtà è se stessa e solo se stessa con il suo destino, fuori della legge di connessione in cui il pensiero umano l'intende e la limita.
Ogni vero pensatore vive spezzando continuamente la forma nella quale il suo sistema tende a definirsi, cerca di liberarsi dell'economia mentale che tende a schematizzare la fluidità della vita.

mercoledì 24 agosto 2011

Tornare a casa

Ho sentito per radio la storia del piccione viaggiatore a cui dei bambini avevano incollato le ali per gioco, e che era dovuto tornare a casa camminando sulle proprie zampe. Aveva percorso così circa 80Km.
Aveva effettuato movimenti estranei agli uccelli. Aveva ignorato la propria natura.
In altre parole, si trattava di un'azione umana compiuta da un uccello.
Allora sorge spontanea la domanda: cos'è essenziale e cos'è circostanziale?
Nell'ambito di questa storia, l'essenziale era andare dove era necessario andare, mentre l'essere uccello, cioè il saper volare, era una circostanza che poteva sussistere ma anche non sussistere.
Piccola figura rotonda nel labirinto di un paesaggio sconosciuto, il piccione si muoveva e talvolta correva con l'intenzione di raggiungere il proprio scopo, e in tutto ciò non c'è nulla di eroico, stava semplicemente tornando a casa.

martedì 16 agosto 2011

Pura presenza

Provo un'incredibile attrazione per tutti i lavori che consistono nella pura presenza.
Lo stare come condizione meditativa. Persone che, come punti fissi, devono trovarsi in un certo luogo, osservare, mantenersi all'erta e restare fermi ai loro posti, senza produrre nulla.
Persone assunte soltanto per esserci.
Come se venissero prodotti individui destinati ad essere testimoni di sé stessi. Perché queste catalessi introspettive?
Una volta mi è capitato di osservare a lungo l'espressione del volto di una persona che, immobile, stava seduta in un'auto ferma. Poi ho visto che vicino all'auto, in piedi, c'era un posteggiatore immerso nella fissità dei suoi pensieri, e poco più in là, come pietrificato, un sorvegliante di un locale, e infine sul bordo del marciapiede, una ragazza che teneva il braccio sollevato nella speranza di fermare una di quelle vetture a cui ogni movimento era precluso. Sembrava di essere in un regno incantato. Nel senso di bloccato, non di incantevole...
E ancora: davanti ad un palazzo, accampata su cartoni, una vecchietta vendeva in silenzio pesci morti.
Neanch'io potevo spostarmi, evidentemente per non turbare la quiete che s'era creata.
Si sarebbe potuto girare un video o scattare una foto, il risultato sarebbe stato lo stesso.
Di tutto questo si può dire soltanto che tutto sta in un qualche luogo, ed è come se in questo stare si rinvenisse la copula "è".
Ogni cosa semplicemente è.

mercoledì 6 luglio 2011

Dialettica dello scetticismo

Lo scettico si rivela ancora una volta dialettico, poiché conosce il compiacimento e la soddisfazione di chi usa il proprio non-sapere per rendersi facile la vita. Sa che può accadere di avvalorare, con uno snobismo non privo di presunzione, la relatività di ogni conoscenza e l'irresponsabilità di ogni azione. Prende così di mira il moderno atteggiamento dell'eroica "resistenza davanti al nulla", ma anche l'esaltazione del fallimento per il fallimento, sempre così di moda. La sartriana passion inutile, capace di favorire sogni tranquilli, è riconosciuta e condannata dagli scettici contemporanei.
Lo scettico e il nichilista che diffidano della razionalità senza cuore, senza però esserne colpiti nella razionalità del cuore, sono antitetici alla scepsi. Non si tratta di sfumature ma di contraddizioni. Spesso si leggono citazioni che lamentano la miseria e l'impotenza dell'uomo, scelte come motto dello scetticismo moderno, ma solamente se si coniuga con la sua grandezza, la miseria dà vita all'inquietudine dell'uomo. La miseria come rifugio lacrimevole e rassicurante non basta da sola.
Che la propria condizione esistenziale ci distragga concependo noi stessi come un fatto tra gli altri, ci induce a dimenticarci del problema. Che però questa indifferenza sonnacchiosa, spacciata per filosofia scettica, si presenti come eroico nichilismo e finga grandezza, è davvero intollerabile.

giovedì 9 giugno 2011

Noi abbiamo inventato la felicità

"Che cos'è amore? e creazione? e anelito?" così domanda l'uomo e strizza l'occhio.
La terra sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l'ultimo uomo.
"Noi abbiamo inventato la felicità" dicono gli ultimi uomini e strizzano l'occhio.
Essi hanno lasciato le contrade dove la vita era dura: perché ci vuole calore.
Ammalarsi e essere diffidenti è ai loro occhi una colpa: guardiamo dove si mettono i piedi.
Folle chi ancora inciampa nelle pietre e negli uomini!
Un po' di veleno ogni tanto: ciò rende gradevole i sogni. E molto veleno alla fine, per morire gradevolmente.
Si continua a lavorare, perché il lavoro intrattiene. Ma ci si dà cura che l'intrattenimento non sia troppo impegnativo.
Non si diventa più né ricchi né poveri: ambedue le cose sono troppo fastidiose.
Chi vuol ancora governare? Chi obbedire?
Nessun pastore e un sol gregge: tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali.
Chi sente diversamente va da sé al manicomio.
"Una volta erano tutti matti" dicono i più raffinati e strizzano l'occhio.
Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose, così la materia di scherno è senza fine.
Sì, si litiga ancora, ma si fa pace presto, per non guastarsi lo stomaco.
Una vogliuzza per il giorno e una per la notte, salva restando la salute.
"Noi abbiamo inventato la felicità" dicono gli ultimi uomini e strizzano l'occhio.

(Nietzsche)

martedì 7 giugno 2011

Scepsi e scetticismo

Il vero seguace della scepsi non è scettico per pigrizia spirituale, ma perché diffida dei concetti troppo sottili e delle definizioni filosofiche e teologiche. E per tale diffidenza ha due motivi di fondo.
In primo luogo dubita che il debole intelletto umano - a meno di non essere arrogante o folle - possa avvicinarsi di più alla verità tramite l'iperesattezza.
Inoltre riconosce nel filosofo e nel teologo solo un peccaminoso desiderio di polemizzare, che rappresenta per lui soltanto una variante folle dell'incapacità di amare e delle vanità dominanti.
"Cosa c'è che vada esente da errore?"
In Erasmo la stultitia (pazzia) si rivela essere l'opposto di ciò che sembra di primo acchito: da follia del mondo diventa la saggezza stessa, quella saggezza che è più alta di ogni ragione umana, e perciò viene considerata pazzia soltanto dalla ragione umana! Anche in Nicola Cusano, e persino in Socrate, si trova la "dotta ignoranza" che sola consente di mettere in discussione il sapere razionale e la sua arroganza.
Il "profano" (in Cusano l'"idiota"), i "fanciulli" (nel Vangelo), il "sapere di non sapere" (in Socrate), sono l'essenza stessa della scepsi.

domenica 5 giugno 2011

Le bugie dei poeti

"E a volte mi capita di trovare nella mia colombaia un uccello sperduto, che non è mio e trema al tocco della mia mano. Ma che ti disse una volta Zarathustra? Che i poeti mentono troppo? Ma anche Zarathustra è un poeta. E credi tu allora che egli abbia detto il vero? E perché lo credi? La fede non mi fa beato, specialmente la fede in me. Ma posto che qualcuno abbia detto sul serio che i poeti mentono troppo: ebbene, ha ragione, noi mentiamo! Noi sappiamo anche troppo poco e non siamo bravi ad imparare, così non possiamo non mentire. E chi di noi poeti non ha mai adulterato il proprio vino?"
(Così parlò Zarathustra - Nietzsche)

lunedì 23 maggio 2011

Errori incancellabili

"Colui che si dispera nella debolezza, ossia l'infelice che si rende dipendente dalla fortuna, non può credere che l'eternità riserbi per lui una consolazione; l'ostinazione non vuole nemmeno sentir parlare della consolazione dell'eternità che, infatti, segnerebbe la sua fine come disperato.
Egli vuole rappresentare proprio un'obiezione contro l'intera esistenza.
In termini figurati: è come se uno scrittore incorresse in un errore di ortografia (forse non si tratta nemmeno di un errore, ma di qualcosa che fa parte essenzialmente, in un senso molto più alto, dell'intera rappresentazione) e questo errore, ora conscio della propria scorrettezza, si arrabbiasse con l'autore e per odio gli vietasse di correggere lo scritto e gli dicesse come giustificazione assurda: "No, non voglio essere cancellato, voglio rimanere lì come testimone contro di te, testimone del fatto che tu sei un cattivo scrittore!".
(S. Kierkegaard)

martedì 17 maggio 2011

La Nuova Atlantide

La nostra epoca è, per molti aspetti, una sorta di Nuova Atlantide. E' qualcosa che imbeve fin nei dettagli la nostra esistenza di oggi: il dominio degli apparati e dei tecnocrati; le scienze dello spirito che diventano un'attività di lusso, un parco naturale protetto; l'ovvia equiparazione della scienza al dominio della natura in vista di uno scopo; la propaganda per promuovere un'autocoscienza planetaria che viene percepita come necessaria ma inattuabile. Poi l'atteggiamento generale di considerare l'universo all'insegna di quello che si potrebbe denominare "comfort cosmico".
Certo, tutto ciò non ha più niente a che fare con le "domande ultime" di Platone, "somme idee" ormai fuori moda. Ci troviamo piuttosto nel baconiano "magazzino della natura". Solo di tanto in tanto ci spaventiamo del fatto che il mondo tecnicizzato venga reso disponibile ad un essere umano che paga con una sorta di dissociazione schizofrenica della personalità questo oblio delle antiche domande sul senso e sul fondamento ultimi.
Come Nietzsche già sapeva: "Le acque delle religioni straripano e lasciano dietro a sé paludi e stagni. Oggi sulla Terra si decide soltanto ascoltando le forze più rozze e malvagie, l'egoismo degli imprenditori e la follia dei dittatori militari".
Le coscienze più sensibili soffrono di tutto ciò, ritengono che, invece del regnum hominis, oggi sia la regressione alla superstizione, ormai generalizzante, a essere divenuto superiore all'uomo, così che lo invade un pudore prometeico, quando riflette sul fatto che le decisioni importanti possano venir delegate ad un computer.
Penso che avremo a che fare ancora a lungo con noi stessi e con la nostra consapevolezza che sapere significa potere. Ma è che non sappiamo che farcene.

giovedì 12 maggio 2011

Penso quindi sono inconsapevole

- Ejaku domandò a Enen: "Come ti chiami?"  ed Enen rispose: "Ejaku", a cui Ejaku replica: "Ejaku sono io!"  ma Enen osserva: "Il mio nome suona Enen", facendo scoppiare Ejaku in una gran risata. -
I due collidono perché in ogni incontro scoppia la dualità ragione-irrazionalità, male-bene, nero-bianco. Per risolvere il dilemma entrambi gli interlocutori devono riconoscere la possibilità d'essere sia tutt'uno che differenti l'uno dall'altro, anteriori alle loro persone e posteriori al loro essere.
La dipendenza da una divinità o da una norma morale, non sono che aspetti della dipendenza dal proprio io, soltanto il concetto del vuoto può proiettare nel regno del 'io come me', 'tu come te', 'io come te', 'tu come me', dove sia io che tu che la legge morale saranno simili a fiori che crescono separatamente ma i cui profumi si fondono in uno: ecco la risata di Ejaku, il suo ecce homo.
Io penso quindi sono inconsapevole.

lunedì 2 maggio 2011

La ruota della sofferenza

L'ignoranza opera come un seminatore. L'azione karmica (i fattori di composizione) motivata dall'ignoranza è simile al seme. E, come la terra in cui viene piantato il seme, la coscienza al momento della causa riceve l'istinto di questo karma accumulato. Come il seme viene nutrito da acqua, concime, calore e umidità, allo stesso modo bramosia e attaccamento attivano il karma mettendolo in grado di produrre un risultato.
Invecchiamento, morte e rinascita, ove siano applicabili, sono un'altra componente degli anelli risultanti di ciò che è stato propulso. Se, ad esempio, accumuliamo karma negativo, nella nostra mente viene depositato il relativo istinto, poi quando moriamo il nostro attaccamento attiva il karma negativo determinando il tipo di rinascita seguente. Invecchiamento e morte derivano dalla rinascita; i fattori di composizione derivano dall'ignoranza; la sofferenza deriva dall'ignoranza.
Il ciclo si ripete e la ruota della vita gira senza interruzione. Questa è la ruota della sofferenza.

giovedì 21 aprile 2011

Sotto il dominio del principio della realtà

L'uomo animale diventa un essere umano soltanto in virtù d'una trasformazione fondamentale della sua natura, che incide non solo sulle sue mete istintuali, ma anche sui "valori" istintuali". Freud ha descritto questo cambiamento come la trasformazione del principio del piacere in principio della realtà. La differenza tra queste due dimensioni è tanto di ordine genetico-storico, quanto di ordine strutturale. L'inconscio, governato dal principio del piacere, comprende i processi più antichi e primari; essi lottano unicamente per conquistare piacere. Ma il principio del piacere, non frenato, entra in conflitto con l'ambiente naturale e umano. L'individuo è presto costretto ad accorgersi in modo traumatico che una soddisfazione piena e indolore dei suoi bisogni è impossibile. Dopo l'esperienza di questa delusione, diviene dominante un nuovo principio di funzionamento psichico. Il principio della realtà si sovrappone al principio del piacere: l'uomo impara a rinunciare a un piacere momentaneo, incerto e distruttivo, in favore di un piacere soggetto a costrizioni, differito ma "sicuro".
Ma l'interpretazione psicoanalitica rivela che il principio della realtà impone un mutamento non soltanto della forma e del momento del piacere, ma anche della sua sostanza vera e propria. L'adattamento del piacere al principio della realtà implica il soggiogamento e la deviazione del potere distruttore della soddisfazione istintuale, la repressione del suo aspetto incompatibile con le norme della società.
Coll'istituirsi del principio della realtà l'essere umano diventa un Io organizzato. Ora lotta per "ciò che è utile". Sotto il principio della realtà, l'essere umano sviluppa la funzione della ragione.
Ma d'ora in poi né i suoi desideri, né la sua alterazione della realtà gli apparterranno più: ora sono organizzati dalla sua società.
Se l'assenza di repressione è l'archetipo della libertà, la civiltà è la lotta contro questa libertà.
Una sola attività del pensiero è scissa dalla nuova organizzazione dell'apparato psichico, e rimane libera dal dominio del principio della realtà: la fantasia.

venerdì 1 aprile 2011

Sulle ali del caso

Che l'uomo sia l'essere che è stato uomo, che egli non sia mai attivo sotto i nostri occhi, ma che l'atto libero sia una condizione necessaria del suo passato, questa è la speranza della disperazione.
Ma persino questo non è certo.
Ad ogni modo, cosa fanno gli uomini? Ebbene, questi burattini sono proiettati da un campo di forza all'altro, qui cadono, lì volano in cielo. Accade che essi esplodano come palloncini, o che si spezzino la schiena contro il fondo degli abissi.
Ma chi muove i fili? è solo il caso o hanno un certo margine di scelta? possono, grazie alla loro destrezza, evitare una corrente mortale lasciandosi trascinare al momento giusto da un'altra?
L'uomo è una foglia morta o un piccolo velivolo?

venerdì 25 marzo 2011

L'ordine naturale serve il disordine morale?

Tutti ripetono, da migliaia di anni, che ci sono delle costanti e che bisogna fidarsi: agire è obbedire alle leggi fisiche per poterle governare.
Ma tutte le costanti su cui facciamo leva, si trasformano in capricci sfuggenti. Se il mondo è volubile e i mezzi più affidabili si trasformano imprevedibilmente, se l'ordine naturale serve il disordine morale, allora l'uomo è solo un incubo.
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venerdì 18 marzo 2011

Perché accanirsi a dipingere l'invisibile?

Nel Quattrocento la pittura conquista la profondità, ma conquistare non basta, bisogna occupare. Gli oggetti, grandi o piccoli, vengono sottoposti ad un ordine rigoroso, ma restano piatti. La distanza che li separa è solo un simbolo, una linea retta che pretende di conficcarsi nel muro e si limita ad arrampicarsi di sbieco nella tela. E' possibile fare di più? Dopo tutto è il paradosso della pittura: fare stare tre dimensioni in due.
Ogni generazione crede di cogliere la terza e di introdurla nei quadri, ma la generazione successiva non si fa ingannare e mostra ai suoi predecessori che non hanno afferrato nulla.. In tempi recenti  una delle fonti del cubismo è stata la ricerca di una nuova dimensione: ci si poneva al medesimo tempo davanti e dietro lo specchio, per sorprendere il rovescio delle carte e la faccia nascosta della realtà. Una volta invecchiati, li si è accusati di aver tracciato solo dei segni.
In certi pittori astratti mi sembra di trovare l'orgoglio inverso: rinunciano a questa ricerca vana e coltivano il loro giardino. Poiché si tratta di un piano, produrrà dei fiori piani; tanto peggio, la bellezza non si misura dal numero delle dimensioni.
Il problema è che la profondità assomiglia all'amore, uccello ribelle: non la volete più, ed è là...
Le soluzioni non cesseranno di essere false e non si cesserà di inventarne di nuove: l'arte è il luogo geometrico delle nostre contraddizioni.
Bisogna esser matti per dipingere, o per scrivere.

martedì 15 marzo 2011

Boezio e la Filosofia consolatrice

Le riflessioni più speculative circa l'essere unitario della divinità si accompagnano spesso con osservazioni sulla vita e l'esperienza umana. Questo vale, per esempio, anche per le "consolazioni" che si riferiscono al problema della teodicea. Ricordiamo la protesta di Giobbe: "Perché esiste il male, se Dio è buono?" o ancora: perché in questo mondo la fortuna arride così spesso ai malvagi? A quanto pare la filosofia elude il problema con un'argomentazione puramente formale: se Dio, che è l'essere, è buono e beato, allora il male non può che essere interpretato come un non essere.
Questa concezione di origine neoplatonica può essere avvalorata da un'osservazione psicologica alla Dostoevskij: il malvagio nella sua viziosa ossessione, fa proprio ciò che fondamentalmente non vuole. Sartre esprime lo stesso concetto con altre parole: il vizio è trovare piacere a rovinarsi.
Il malvagio, quindi, che di fatto perde il proprio "sé", somiglia a chi si fa schiavo della Fortuna: le sue passioni lo mettono in conflitto con l'autentica conoscenza di sé, in un certo senso si sconfigge da solo.
Alla Filosofia consolatrice però, che non può ancora fare appello alla psicanalisi, basterà citare Platone che, con il mito della caverna, ha rappresentato l'uomo prigioniero dei propri meccanismi mentali e la sua difficoltà a staccarsene.
Boezio arriva ad estremizzare il concetto: "Un torto, a chiunque sia fatto, costituisce infelicità non per chi lo riceve, ma per chi lo fa. Eppure gli avvocati si comportano in maniera opposta: essi infatti si sforzano di suscitare nei giudici compassione per coloro che hanno subito qualche ingiustizia, mentre la compassione sarebbe più giustamente dovuta a coloro che l'hanno compiuta; e sarebbe bene che a portarli in giudizio fossero accusatori non incolleriti, ma piuttosto benigni, e aperti alla compassione, come si fa con i malati che si portano dal medico, perché possano liberarsi della parte malata di colpa".
Ma Boezio continua, e a questo punto si interroga sul libero arbitrio, poiché se tutti gli avvenimenti fossero retti da una rigorosa casualità, nessuna colpa avrebbe più un responsabile, e tutta l'umanità verrebbe assolta per "incapacità di intendere e di volere".
La distinzione tra provvidenza e predeterminazione per Boezio non rappresenta solo il rifiuto del determinismo, del fatalismo, ma la presa di coscienza della propria libertà fin nella cella del condannato a morte. Il ragionamento speculativo ha dunque in primo luogo un significato esistenziale. Il fatalismo, per esempio quello stoico, avrebbe dettato a Boezio una ricetta più semplice: darsi un contegno, essere più forte del destino, "uno scoglio immobile nel mare in tempesta" come Seneca. Ma non è questo che a lui importa. Egli vuole superare la disperazione restando se stesso, in armonia con la provvidenza, ma sentendosi un uomo libero, lucido, assennato, senza il dolore solipsistico di chi si è chiuso in se stesso.

venerdì 4 marzo 2011

La mimica emotiva

La mimica emotiva pare avere un doppio senso: conferisce alle contrazioni muscolari un'apparenza di intenzione, un senso premeditato, ma un attimo dopo, non appena la si riconsidera, rivela la sua verità: è un essere preso in prestito, senza efficacia, un epifenomeno; nel migliore dei casi essa denuncerebbe la plumbea necessità che ci schiaccia e il margine sottile che essa lascia alle nostre scelte.
In quest'ultimo caso, il tentativo abortito di lanciare uno sguardo indietro sarebbe lo sfruttamento fugace di un bilanciamento riequilibratore. Comunque sia, l'impotenza della mimica emotiva rivela la profondità della nostra schiavitù: le nostre anime sono troppo piccole e i nostri corpi troppo pesanti.

venerdì 18 febbraio 2011

Gli artigli delle idee

La parola "idea" designa il contrario di un concetto astratto. Quest'ultimo, ripulito fino all'osso, possiede in proprio le sue designazioni e i suoi simboli: se dovessimo rappresentarlo basterebbe scegliere tra la metafora e l'allegoria.
Vissuta, sofferta, sempre presente ma raramente intravista, l'idea è invece come la linea della vita, un movimento a spirale che va dalla nascita alla morte, siamo noi stessi ed è il mondo, o meglio il nostro rapporto con esso.
I sensi, storpiati dalle nostre ignoranze e da quelle della nostra epoca, quanto dal sapere e dai miti, sono spesso muti, talvolta deliranti, ingannevolmente profetici. O, piuttosto, questi tre stati si uniscono e si condizionano circolarmente: il sentimento li penetra, essi sono ragione e conseguenza. La loro pratica restringe o dilata, a seconda delle necessità e dei fini, questo insieme confuso, oscuro a se stesso. Esso illumina l'azione e vi si iscrive; per quanto chiaro possa apparire un atto, le sue vestigia sono segnate da una insensatezza della Ragione, Ragione superata e resa prematura da un'Idea.
Se è vero che si riconosce una bestia dall'impronta dei suoi artigli, bisogna cercarne attentamente i segni.

lunedì 14 febbraio 2011

Fuga e trascendenza

Non mi rimane altra scelta che questa sorta di "passione inutile" e inopportuna che vale come fuga e trascendenza, questa passione notturna e sorda della parte per il tutto, come un vento di tenebra che soffia attraverso un cuore squarciato.
Questa trascendenza dell'ego è un poco trasgressiva: partorisce l'informe, il grottesco, che non è altro se non il rovescio della paura di fronte alla libertà del creare.
La solitudine e l'abbandono spaventano, resta così questa inquietudine dell'essere in responsabilità di fronte all'uomo, in un processo che diventa parte del gioco del vivere, avendo cura di scegliere i propri giudici! Una sorta di partita truccata che sarà la "riuscita sociale", da scambiare astutamente con una "vittoria mistica".

giovedì 3 febbraio 2011

Sulla felicità sessuale

E' decisamente falso asserire che la conoscenza sia antierotica e che la quotidianità sia destinata ad uccidere il desiderio. Il desiderio sa trovare i varchi più angusti. Ed è un inferno vivere in regime di stretta vicinanza e forzata castità con qualcuno che desideri e il contatto con il quale è di una intimità che crea dipendenza.
Ho imparato che la felicità sessuale che immaginavo, una soddisfazione costante e profonda, la fantasia romantica da cui siamo tutti ipnotizzati, è impossibile quanto l'idea di poter avere tutto quello che vuoi da un'altra persona. Ma l'alternativa: amanti, avventure, prostitute è vanamente distruttiva.
Il sopravvenire dell'amarezza e del risentimento, così come l'invidia sessuale per i giovani, richiede tutta la maturità che posso avere a disposizione, così come il capire che bisogna cercare la felicità comunque, anche a dispetto della vita.
Un tempo i miei desideri erano così forti e strani che li vivevo come una sorta di caos, li trovavo difficili da gestire e troppo complicati perché potessi goderne. Per me, desiderare qualcuno significava rimanere coinvolto in una specie di follia, una trattativa troppo serrata con me.
Oggi credo di aver capito che i miei desideri non sono altro da me, non devo scendere a patti con me stesso: io sono loro e loro sono me.

lunedì 31 gennaio 2011

Contaminazioni nell'arte

"Di fronte alla parola contaminazione io faccio un passo indietro, perché la contaminazione in quanto tale è sem­pre esistita in qualsiasi arte e in qualsiasi parte del mon­do. La danza contemporanea, ad esempio, è un’eviden­te commistione tra i passi e i ritmi sudamericani e afri­cani e la tradizione europea. La musica di oggi è un fiu­me di derivazioni e di collegamenti. L’arte non ne parlia­mo. La contaminazione insomma fa parte degli organi genitali dell’arte, è la sua genesi, non può essere assunta come elemento programmatico dalle istituzioni. L’espe­rienza artistica nasce dal desiderio di qualcuno, che vi­ve nel mondo e subisce le influenze più diverse, di crea­re qualcosa: è evidentemente contaminata all’origine. Se invece con questo termine vogliamo intendere l’interdi­sciplinarietà tra generi, basta guardare la storia per ri­trovarne mille esempi, a partire dai testi shakespeariani. Non è un metodo per organizzare le cose, anzi l’in­terdisciplinarietà come metodo conclamato è appannag­gio delle istituzioni mediocri. Prima dell’interdisciplina­rietà infatti ci sono le discipline, ci devono essere musi­cisti, danzatori, attori. La comunicazione tra le arti, co­munque, è sempre esistita."
(Paolo Baratta)

mercoledì 26 gennaio 2011

Elogio dell'incertezza

Guaritori, astrologi, lettori di fondi di caffè, chiromanti, lettori d'aure, c'è un vasto assortimento di pazzi nel mondo, tutti con le mani infilate nelle tasche di gente debole, che vuole solo sapere cosa sta accadendo, che vuole certezze.
L'incertezza è la sola cosa che non si può vendere come una dottrina, ed è, molto probabilmente, l'unica che valga.

giovedì 13 gennaio 2011

Inadatti a vivere

I saggi si sforzano di insegnarci l'impassibilità, ma essendo nati da un atto di insubordinazione e di rifiuto eravamo poco preparati all'indifferenza, e a renderci del tutto inadatti è intervenuto il “sapere”. Il principale rimprovero che dobbiamo muovere nei confronti del sapere, è di non averci aiutato a vivere. Ma era poi quella la sua funzione?
Specializzati nelle apparenze, esercitati nei nonnulla, accumuliamo conoscenze che ne sono il riflesso, dato che la nostra scienza è riproduzione della nostra falsa innocenza.
Inadatti a vivere fingiamo la vita, e giacché il nostro culto dell'imminente si avvicina all'estasi, cadiamo in deliquio davanti a ciò che ignoriamo, davanti all'istante che attendiamo, in cui speriamo di esistere, e in cui invece esisteremo altrettanto poco che nell'istante precedente.
Avendo spogliato il presente della sua dimensione eterna, non abbiamo ormai altro che la volontà, nostra grande risorsa, e nostro castigo. Ma a furia di voler essere “altro”, finiamo per non essere niente.

mercoledì 5 gennaio 2011

La Cabala ebraica

"In ogni religione" scrive Z'ev ben Shimon Halevi "ci sono sempre due aspetti, quello visibile e quello nascosto". L'aspetto visibile si manifesta come ritualità, testi scritturali, funzioni religiose, quello nascosto alimenta la luce che dovrebbe illuminare quelle forme. Nel giudaismo, gli insegnamenti nascosti sono chiamati cabala. Questi insegnamenti, si dice, ebbero origine dagli angeli.
La cosmologia della cabala postula una realtà a più livelli: ogni livello è un mondo in sé completo, collocato gerarchicamente, e la parte superiore di ognuno corrisponde all'aspetto inferiore di quello sopra. La sfera più alta è quella di Metatron, l'arcangelo che insegna agli esseri umani.
Ogni livello incarna uno stato di coscienza, e la maggior parte delle persone sono ai livelli più bassi vivendo una vita meccanica, legata ai ritmi del corpo, alle reazioni e percezioni abituali. La cabala cerca di aprire gli occhi del discepolo sulle sue limitazioni e di educarlo a entrare nello stato di coscienza in cui può essere in sintonia con una consapevolezza più alta, non più schiavo dei condizionamenti.
Per diventare libero, l'aspirante cabalista deve per prima cosa cancellare le illusioni sui giochi della vita. Per compiere questo percorso, il cabalista deve osservare l'attività dello yesod (la sua mente o ego comune) in modo da percepire le sue autoillusioni e portare a consapevolezza le forze inconsce che regolano i suoi pensieri e le sue azioni. Questo livello di coscienza è detto tiferet. Il tiferet è al di là della mente ordinaria, qui l'ego è trasceso.
Gli elementi specifici dell'esercizio del cabalista variano da scuola a scuola, benché i cardini siano pressoché costanti. Uno dei sistemi più famosi è l'"albero della vita" (Sephiroth), una mappa delle gerarchie e degli attributi che interagiscono nel mondo e all'interno dell'uomo. L'albero è un'immagine attraverso la quale l'aspirante cabalista osserva la propria natura, ma i suoi studi non varranno a nulla se egli trascura il suo sviluppo spirituale. Il prerequisito fondamentale è l'esercizio del controllo sulla volontà, la capacità di mantenere l'attenzione e la consapevolezza. Per questo il cabalista si dedica alla meditazione.
Le istruzioni per la meditazione fanno parte degli insegnamenti segreti e, a parte le regole generali, non sono rese pubbliche. Ogni discepolo impara dal suo maggid. La concentrazione meditativa permette al cabalista di scavare nelle profondità di un particolare oggetto di meditazione (una preghiera o un aspetto dell'albero) e di arrestare così il suo pensiero. Questa focalizzazione è definita kavvanah.
Secondo la dottrina cabalistica la kavvanah senza la giusta guida ed una corretta preparazione spirituale può essere persino pericolosa.
La fine del cammino è il devekut, in cui l'anima aderisce a Dio. Quando il meditatore stabilizza la sua coscienza a questo livello, non è più un uomo normale ma uno zaddik, un santo, che è sfuggito alle catene del suo ego. Le qualità di chi abbia raggiunto questa condizione includono: imperturbabilità, indifferenza a lode o biasimo, mente quieta e controllata, capacità profetica.
(Fonte: D. Goleman)