venerdì 25 marzo 2011

L'ordine naturale serve il disordine morale?

Tutti ripetono, da migliaia di anni, che ci sono delle costanti e che bisogna fidarsi: agire è obbedire alle leggi fisiche per poterle governare.
Ma tutte le costanti su cui facciamo leva, si trasformano in capricci sfuggenti. Se il mondo è volubile e i mezzi più affidabili si trasformano imprevedibilmente, se l'ordine naturale serve il disordine morale, allora l'uomo è solo un incubo.
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venerdì 18 marzo 2011

Perché accanirsi a dipingere l'invisibile?

Nel Quattrocento la pittura conquista la profondità, ma conquistare non basta, bisogna occupare. Gli oggetti, grandi o piccoli, vengono sottoposti ad un ordine rigoroso, ma restano piatti. La distanza che li separa è solo un simbolo, una linea retta che pretende di conficcarsi nel muro e si limita ad arrampicarsi di sbieco nella tela. E' possibile fare di più? Dopo tutto è il paradosso della pittura: fare stare tre dimensioni in due.
Ogni generazione crede di cogliere la terza e di introdurla nei quadri, ma la generazione successiva non si fa ingannare e mostra ai suoi predecessori che non hanno afferrato nulla.. In tempi recenti  una delle fonti del cubismo è stata la ricerca di una nuova dimensione: ci si poneva al medesimo tempo davanti e dietro lo specchio, per sorprendere il rovescio delle carte e la faccia nascosta della realtà. Una volta invecchiati, li si è accusati di aver tracciato solo dei segni.
In certi pittori astratti mi sembra di trovare l'orgoglio inverso: rinunciano a questa ricerca vana e coltivano il loro giardino. Poiché si tratta di un piano, produrrà dei fiori piani; tanto peggio, la bellezza non si misura dal numero delle dimensioni.
Il problema è che la profondità assomiglia all'amore, uccello ribelle: non la volete più, ed è là...
Le soluzioni non cesseranno di essere false e non si cesserà di inventarne di nuove: l'arte è il luogo geometrico delle nostre contraddizioni.
Bisogna esser matti per dipingere, o per scrivere.

martedì 15 marzo 2011

Boezio e la Filosofia consolatrice

Le riflessioni più speculative circa l'essere unitario della divinità si accompagnano spesso con osservazioni sulla vita e l'esperienza umana. Questo vale, per esempio, anche per le "consolazioni" che si riferiscono al problema della teodicea. Ricordiamo la protesta di Giobbe: "Perché esiste il male, se Dio è buono?" o ancora: perché in questo mondo la fortuna arride così spesso ai malvagi? A quanto pare la filosofia elude il problema con un'argomentazione puramente formale: se Dio, che è l'essere, è buono e beato, allora il male non può che essere interpretato come un non essere.
Questa concezione di origine neoplatonica può essere avvalorata da un'osservazione psicologica alla Dostoevskij: il malvagio nella sua viziosa ossessione, fa proprio ciò che fondamentalmente non vuole. Sartre esprime lo stesso concetto con altre parole: il vizio è trovare piacere a rovinarsi.
Il malvagio, quindi, che di fatto perde il proprio "sé", somiglia a chi si fa schiavo della Fortuna: le sue passioni lo mettono in conflitto con l'autentica conoscenza di sé, in un certo senso si sconfigge da solo.
Alla Filosofia consolatrice però, che non può ancora fare appello alla psicanalisi, basterà citare Platone che, con il mito della caverna, ha rappresentato l'uomo prigioniero dei propri meccanismi mentali e la sua difficoltà a staccarsene.
Boezio arriva ad estremizzare il concetto: "Un torto, a chiunque sia fatto, costituisce infelicità non per chi lo riceve, ma per chi lo fa. Eppure gli avvocati si comportano in maniera opposta: essi infatti si sforzano di suscitare nei giudici compassione per coloro che hanno subito qualche ingiustizia, mentre la compassione sarebbe più giustamente dovuta a coloro che l'hanno compiuta; e sarebbe bene che a portarli in giudizio fossero accusatori non incolleriti, ma piuttosto benigni, e aperti alla compassione, come si fa con i malati che si portano dal medico, perché possano liberarsi della parte malata di colpa".
Ma Boezio continua, e a questo punto si interroga sul libero arbitrio, poiché se tutti gli avvenimenti fossero retti da una rigorosa casualità, nessuna colpa avrebbe più un responsabile, e tutta l'umanità verrebbe assolta per "incapacità di intendere e di volere".
La distinzione tra provvidenza e predeterminazione per Boezio non rappresenta solo il rifiuto del determinismo, del fatalismo, ma la presa di coscienza della propria libertà fin nella cella del condannato a morte. Il ragionamento speculativo ha dunque in primo luogo un significato esistenziale. Il fatalismo, per esempio quello stoico, avrebbe dettato a Boezio una ricetta più semplice: darsi un contegno, essere più forte del destino, "uno scoglio immobile nel mare in tempesta" come Seneca. Ma non è questo che a lui importa. Egli vuole superare la disperazione restando se stesso, in armonia con la provvidenza, ma sentendosi un uomo libero, lucido, assennato, senza il dolore solipsistico di chi si è chiuso in se stesso.

venerdì 4 marzo 2011

La mimica emotiva

La mimica emotiva pare avere un doppio senso: conferisce alle contrazioni muscolari un'apparenza di intenzione, un senso premeditato, ma un attimo dopo, non appena la si riconsidera, rivela la sua verità: è un essere preso in prestito, senza efficacia, un epifenomeno; nel migliore dei casi essa denuncerebbe la plumbea necessità che ci schiaccia e il margine sottile che essa lascia alle nostre scelte.
In quest'ultimo caso, il tentativo abortito di lanciare uno sguardo indietro sarebbe lo sfruttamento fugace di un bilanciamento riequilibratore. Comunque sia, l'impotenza della mimica emotiva rivela la profondità della nostra schiavitù: le nostre anime sono troppo piccole e i nostri corpi troppo pesanti.