giovedì 27 dicembre 2012

Abbiamo ragione di sperare

Fidati, lei avrà certamente trovato qualcuno che la consola, non è certo una che si accascia - come lui, con il suo disordine bambinesco, con quell'infantile paura che aveva piegato e contorto la sua vita in forme curiose.
Scoperto che tutti avevano il dovere di essere indulgenti con questi pasticcioni d'uomini-bambini, puri cuori nella ruvida tela dell'innocenza, e ben volentieri accettando la necessaria quota di conseguenti menzogne, lui si era messo a posto con le sue chicche sentimentali: verità, amicizia, dedizione e amor di patata.
Questo è quanto attualmente sappiamo, ma non è certo la storia intera. S'avvicina appena ai prodromi di una vera coscienza.
La premessa necessaria è che un uomo in certo qual modo è qualcosa di più delle proprie caratteristiche, più di tutte le emozioni, affanni, gusti e opere che si compiace di chiamare "la mia vita".
Abbiamo ragione di sperare che una vita sia qualcosa di più di questa nube di particelle, di questo mero conglomerato di fatti.
Esamina bene ciò che è comprensibile e concluderai che soltanto l'incomprensibile ti fornisce qualche luce.
Qualcosa all'estremo limite del tutto.




sabato 8 dicembre 2012

L'irrazionalità esistenziale della donna

La dialettica del pensiero non contiene nei suoi quadri l'irrazionalità esistenziale dell'amore, la sua negatività logica. La donna e l'amore appartengono alla sfera della vita e dell'immediato, antitetica alla sfera della riflessione e della mediatezza. Inoltre l'uomo, portatore dello spirito, ha come compito di essere assoluto, di agire in modo assoluto, di esprimere l'assoluto, mentre la donna sta nel relativo e nel finito. Tra due esseri tanto differenti non vi può essere una vera azione reciproca, e questa proporzione è lo scherzo, che è venuto nel mondo con la donna. Quindi, in amore, ci si diverte finché si considera la donna come uno scherzo, ma se la si considera come una quantità assoluta, si fa una quantità relativa di se stessi.
Anche sotto questa nuova prospettiva, la donna è l'illogico, lo scherzo, la contraddizione.
Il tema dell'inconsistenza logica ed etica dell'eros e della donna, della loro scintillante, amabile fugacità, fondata su un principio irrazionale, risuona in tutti gli accenti del convivere.
La donna è bella e splendida se è considerata esteticamente, ma non ci si può fermare alla fase estetica se si è uomini veramente, e allora essa diventa una quantità irrazionale. Essa è una cosa così strana, così mista, così composta, che nessun attributo la esprime, e che i molti attributi, se si adoperassero, si contraddirebbero in modo che solamente una donna potrebbe sopportarlo, e, ciò che è peggio, sentirsene felice.
Ma non dicono che la donna crea i poeti, i santi, i geni e gli eroi? è vero, ma in che modo li crea? li crea negandosi. Perché si diventa genio, eroe, poeta o santo per la donna che non si ha.
In questo senso è entusiasmante, ma dirlo senz'altro sarebbe rendersi colpevole di un paralogismo che non potrebbe sfuggire se non ad una donna.
L'idealità è nell'uomo, nella sua proiezione fantastica e illusiva. Ciò che la donna fa in senso positivo non desta idealità; quindi tutta l'importanza della donna è negativa, mentre la sua importanza positiva è nulla, se non dannosa. Essa non se ne accorge e si consola con la sua esuberante immaginazione.


lunedì 26 novembre 2012

L'unica stagione della vita in cui si vive davvero

L'unica stagione della vita in cui si vive davvero.
Tutto ancora da imparare, da interpretare.
Uno sguardo violento, quello dei bambini, senza pregiudizi, amorale.
Dura pochissimo, quello sguardo, si appanna e si incrosta in fretta, ma finché è lì, limpido, si è vivi.
Gli adulti sono tutti morti.
Forse si torna a vivere solo da vecchi, nella vecchiaia estrema, quella al limite, quando non ci si aspetta più niente dagli altri né dalla vita, quando si è di nuovo liberi e violenti, capaci di tutto, se le forze reggono.
I vecchi sanno essere buonissimi e cattivissimi.
Hanno riconquistato il privilegio assoluto di non aver più paura di perdere niente se non la vita stessa, e forse nemmeno quella... come i bambini, finché sono davvero bambini.



domenica 11 novembre 2012

I re sono gli schiavi della storia


 

Tolstoj disse: "I re sono gli schiavi della storia". Più in alto uno si trova sulla scala del potere, meno spontanee sono le sue azioni.
Per Tolstoj la libertà è interamente individuale. Sarà libero quell'uomo la cui condizione è semplice, veritiera, reale. Essere liberi vuol dire essere liberati dalla limitazione storica.
D'altro canto, Hegel vide l'essenza della vita umana come derivata dalla storia. Storia, memoria, è questo che ci rende umani; questo e la nostra coscienza della morte: "con l'uomo è apparsa la morte". Giacché la conoscenza della morte ci fa desiderare di prolungare le nostre vite a scapito di altre. E' questa la molla della lotta per il potere. Non l'ordine civile, non lo sviluppo elevato del genere umano. Il fine, però, è la libertà.






mercoledì 31 ottobre 2012

Peculiarità umano-scimmiesche

Le ultime informazioni provenienti dalla gola di Olduwai in Africa Orientale ci danno ragione di supporre che l'uomo non è disceso da una pacifica scimmia arboricola, ma da una specie carnivora e terrestre, una belva che andava a caccia in branchi e frantumava i teschi della preda con un bastone e con l'osso del femore. Può non sembrare bello per gli ottimisti e per chi ha una visione clemente e speranzosa del genere umano.
Il lavoro compiuto da Sir Solly Zuckermann sulle scimmie del Giardino Zoologico di Londra, è ormai superato. Oggi è chiaro che le scimmie che vivono nel proprio habitat sono meno sessualmente stimolate di quelle tenute in cattività. Può darsi che la cattività, la noia, produca lascivia.
E può anche essere che l'istinto territoriale sia più forte di quello sessuale.
Con buona pace di Freud e le sue teorie.



venerdì 19 ottobre 2012

Tu mi muovi

Ad ogni modo, posso pretendere di avere un gran scelta?
Mi guardo e vedo torace, cosce, piedi, una testa. Questa strana organizzazione, io lo so che morirà. E dentro, qualche cosa, questa cosa: felicità...
"Tu mi muovi". Che scelta ti lascia? Nessuna. Qualcosa produce l'intensità, un sentimento sacro, così come gli aranci producono l'arancione, l'erba il verde, la luce il calore. Certi cuori sgorgano più amore, altri, pare, di meno. Significa qualcosa?
Ci sono quelli che dicono che questo prodotto dei cuori è conoscenza: "Je sens mon cœur et je connais les hommes". Non lo potrei dire con sicurezza. Il mio viso troppo cieco, la mia mente troppo limitata, i miei istinti troppo ristretti.
Ma questa intensità, non significa niente? E' una gioia idiota che fa esclamare questo animale, l'animale più singolare di tutti.
E lui crede che questa reazione sia un segno, una prova? E ce l'ha in petto?
Ma non ho argomenti da contribuire a questo proposito.
"Tu mi muovi"
"Ma che cosa vuoi?"
E' proprio questo il punto: un bel niente.


giovedì 4 ottobre 2012

Redenzione

Io non sono d'accordo con Nietzsche che Gesù abbia introdotto la malattia nel mondo, che lo abbia ammorbato con la sua morale da schiavo. Io credo che questa morale sia ancora più antica.
Anche Nietzsche comunque aveva una visione cristiana della storia, perché vedeva il presente sempre come crisi, come momento di decadenza della grandezza classica, come corruzione o male da cui bisogna salvarsi. Questa, per me, è concezione cristiana.
Ed è il modo di vedere tipico degli occidentali.
Pensiamo di dover guarire dagli effetti di un qualche veleno, di aver bisogno di salvarci, di redimerci.
Tutti cerchiamo continuamente un redentore...




domenica 16 settembre 2012

La natura umana

L'uomo ha una natura? Coloro che l'hanno descritta con più sicurezza, Hobbes, Freud, eccetera, per venirci a dire quel che siamo "intrinsecamente", non sono i nostri più grandi benefattori. Il che vale anche per Rousseau. Posso essere d'accordo con l'attacco sferrato da Hulme contro l'introduzione da parte dei Romantici del concetto di Perfezione nelle cose umane, però non mi piace neppure la sua angustia micragnosa e pedantesca.
La scienza moderna che non si preoccupa minimamente della definizione della natura umana, ottiene i suoi risultati più profondi attraverso l'anonimato, e non riconosce altro che il brillante funzionamento dell'intelletto.
Sulla verità scoperta dalla scienza moderna non si può basare la nostra vita, ma forse, al momento attuale, la cosa migliore è proprio una moratoria delle definizioni della natura umana.


mercoledì 29 agosto 2012

Sollevati dall'affannosa ricerca degli assoluti

Nel Seicento la disperata ricerca del vero assoluto fu interrotta per dar modo al genere umano di trasformare il mondo.
Con il pensiero si fece qualcosa di pratico. Il mentale divenne anche reale.
Sollevati dall'affannosa ricerca degli assoluti, la vita fu più piacevole.
Soltanto un piccolo gruppo di intellettuali fanatici, professionisti, continuarono ad inseguire quegli assoluti. Ma le nostre rivoluzioni, compreso il terrore nucleare, ci hanno restituito la dimensione metafisica.
Tutta questa grande attività pratica, ecco che culmine ha raggiunto: che ora può scomparire tutto. Civiltà, storia, significato. Tutto.
E senza particolari rimpianti.


lunedì 23 luglio 2012

La convinzione che fosse necessario spingere

Io ho intenzionalmente letto male il mio contratto. Non sono mai stato il proprietario di me stesso, ma soltanto un oggetto in prestito. Evidentemente continuo a credere in qualcosa. Sebbene mi rifiuti di ammetterlo. Ma cos'altro può spiegare la mia condotta e la mia vita? Perciò tanto vale che riconosca come stanno le cose, non foss'altro perché altrimenti non posso neppure venir descritto (non che ce ne sia reale bisogno peraltro)
Il mio comportamento implica che c'è una barriera contro la quale ho spinto tutta la mia vita, fin dall'inizio, con la convinzione che fosse necessario spingere, e che qualche cosa ne dovesse risultare. Forse che riuscissi ad un dato momento di passare dall'altra parte.
Devo aver sempre avuto questa idea... è fede? o è semplicemente un atteggiamento infantile, come quando ci si aspetta di essere amati perché si fa bene il proprio compito?


lunedì 16 luglio 2012

La linea di minor resistenza

"Di noi nessuno, credo, più ricorda quando cominciò, né di dove, esattamente; un piccolo scarto forse, una prima deviazione a evitare vampe lontane, un tronco di abete o faggio a riparo, un muricciolo di pietre, la breve spada per tre quarti nel fodero, l'occhio attento, l'orecchio ben spalancato al fragore della battaglia laggiù.
Non sempre era facile seguirla, la linea. Spariva oltre un torrente ringhioso, si perdeva nell'incavo di fossi cari al crescione e a limacciose lumache senza guscio. O perché cadeva brusca la notte. Che fare adesso? Stavamo lì attorno a magri fuochi di sterpi, malamente accampati, inquieti, la paura come rugiada sui nostri mantelli.
E noi sempre ancora a marciare, ancora talvolta a dover combattere, polverosi, ossuti, la daga incrostata, le frecce scarse nella faretra. Ma vivi, grazie alla linea di minor resistenza. Ora ne vediamo all'incirca la fine, oltre quegli ultimi cardi e più in là lo stagno immobile. E ci contiamo, noi superstiti attorno a braci decrescenti. Ci rallegriamo, la voce arrochita, prendendo spesso fiato. Qualcuno tenta le prime note di un canto, presto scoraggiato. Una lunga fuga, dice un altro, tra nebbie e sbiechi di gelide piogge e la mazza del sole, soltanto una fuga è stata tutta la nostra marcia per lancinanti strappi, disonorevoli omissioni. Ma non è stato proprio così, sempre così. C'erano tratti, anche lunghi, di pur guardinga spensieratezza, di euforico abbandono, l'ombra del pericolo rimasta indietro, quando ci pareva di correre più in fretta del sole, della vita. Un altro ride senza molta allegria, sputa sui carboni un suo dubbio di buffone: la linea di minor resistenza non è mai esistita, ce la siamo inventata per dare un senso al nostro andare, una direzione, un'idea di minimo controllo su quanto facevamo, su quel vano soffrire, quel cadere e poi ripartire a disperdere il vuoto, in qualche modo. Mai esistita ripete il guitto. Sarà. Noi lo lasciamo dire perché alla fine non ha più molta importanza capire come ci siamo veramente arrivati, allo stagno color piombo là dietro."

(Carlo Fruttero)




domenica 8 luglio 2012

Teoria del Rischio

La vita dei Paesi "civili" poggia le sue fondamenta sul rischio, poiché sopravvivono solo attraverso l'equilibrio della paura. La vita umana viene paragonata al rischio calcolato del mondo degli affari. Che poi si sa, i veri grossi affari non corrono rischi.
Tocqueville credeva che nelle democrazie moderne sarebbero diminuiti i delitti e aumentati i vizi privati. Forse avrebbe dovuto dire che avremmo avuto meno delitti privati e più delitti collettivi.
Gran parte di questi delitti collettivi sono perpetrati col preciso obiettivo di ridurre il rischio. Ora io so bene che non è cosa da niente governare questo pianeta con i suoi 6 miliardi e più di popolazione. Già il numero è qualcosa di impensabile e basta da sé a dare un'aria sorpassata a tutte le idee pratiche.
La nostra è innegabilmente una civiltà borghese, Non uso questo termine nel senso in cui l'usava Marx. Nel moderno lessico dell'arte e della religione, è borghese considerare che l'universo sia stato fatto per il nostro placido uso e consumo, e per darci conforto, comodità e sostegno.
La luce non viaggia a 300mila Km al secondo solo per permetterci di vedere mentre ci pettiniamo o per leggere sul giornale che il prosciutto oggi costa più di ieri.
Tocqueville considerava l'impulso verso il benessere come uno degli impulsi più forti in una società democratica. Non gli possiamo rimproverare d'aver sottovalutato i poteri distruttivi generati da tale impulso.

(Fonte: S. Bellow)





domenica 13 maggio 2012

Non più occhi né orecchie

Non più occhi, né orecchie,
né naso, né lingua,
né corpo, né mente,
né colore, né suono,
né odore, né sapore,
né tocco, né cosa esistente,
né regno della vista,
né regno della coscienza.
Non più vecchiaia ne morte...





venerdì 20 aprile 2012

Evanescenza

Una mattina qualsiasi, in autobus, sul Ponte della Libertà. Un cielo di un tenue colore incerto. A Marghera qualche ciminiera espira un sottile filo di fumo che disarmonicamente si dilata verso l'alto. Sulla laguna un vasta cortina vaporosa rifrange la luce sull'acqua.
Dopo il Ponte, sui muri di un cantiere, murales con fiori e qualche frammento di speranza: "I sogni attraversano gli oceani", dipinto a grandi lettere. Oltre il muro si intravedono le dita di una scultura in cemento di un artista di cui si è dimenticato anche il nome, che per anni è rimasta in mostra di sé sulla Riva Ca' di Dio, vicino alla fermata "Arsenale", e che poi non si sapeva dove buttare.
Le dita che si intravedono in velocità, tenute miserevolmente in piedi da una struttura di tubi, non si sa bene cosa vogliano significare. Preghiera? Curiosità? Semplice volontà di esistere? Indicano o chiedono? Cercano un confronto con chi le guarda o vogliono sottolineare l'inutilità del tutto?
Le altre persone nell'autobus guardano nel vuoto, sembra quasi che il paesaggio, banale, scontato nella ripetitività per molti di loro, non voglia più significare qualcosa. E forse è proprio questo il pensiero che mi sta accompagnando. Con l'assenza di curiosità, con l'assenza del proprio percepirsi nelle cose, si cessa di esistere, si elimina il senso e l'utilità della storia e quando questo stato diventa la normalità, si cessa anche di essere inesistenti, superando qualsiasi concezione del nulla, diventando più nulla del nulla in un ambiente che non esiste più, anzi, che non è mai esistito perché non lo si ricorda.
"L'angoscia che si diffonde non scomparirà domani o dopodomani. Forse siamo entrati in una nuova tappa dell'evoluzione umana. Non c'è più presente. Il presente è scomposto, sfilacciato, abbandonato alle immagini più evanescenti. Siamo in un mondo designificato". Frammento di un'intervista a Jean-Paul Aron, psicologo scomparso nel 1988, che implacabilmente continua: "è probabile che la gente viva già comodamente nel non-senso, a proprio agio. Perché cercare un senso, allora, là dove nessuno ne vuole più trovare?"
Niente da eccepire, e poi è neanche tanto colpa nostra se siamo fatti così, in continua balia di qualcosa che in qualsiasi momento può giungere oppure no. Un po' incuranti, un po' incoscienti, un po' disfatti.







martedì 13 marzo 2012

Una cicatrice di morte e di vita

Si nasce per scappare via da un corpo destinato a morire.
Qualcosa dentro di noi si rende conto che è destinato a spegnersi,
e allora reagisce, fugge.
I bambini sono la paura di morire che fugge via dai nostri corpi.
I bambini saltano fuori dalla pancia delle madri e scoppiano a piangere,
ancora terrorizzati da quello che hanno abbandonato,
dalla morte che hanno scampato.
Sono pezzi di corpo della madre in fuga da lei.
Le madri cercano di tenerli legati a sé, li trattengono quando nascono,
ma i bambini fuggono ugualmente, e allora le madri si vendicano,
aizzano contro di loro la morte,
la corda che li trattiene diventa il serpente che morde il loro piccolo ventre,
e gli inietta il veleno mortale.
Anche loro sono segnati, il loro destino gli è stato inoculato nella pancia.
Il serpente viene strappato via,
ma i bambini portano al centro del loro corpo una cicatrice di madre,
una cicatrice di morte e di vita. Per sempre.

(Tiziano Scarpa)





venerdì 17 febbraio 2012

Il demone dell'ottimismo

Spesso, a chi mi conosce poco, rendo l'impressione di essere un pessimista. In realtà non sono un vero pessimista, dal momento che in qualità di dubitatore (adepto della scepsi) mi è impossibile propendere per la negazione assoluta, così come d'altra parte non posso abbracciare una fede quale che sia.
Ma mentre è evidente a chiunque quanto dannoso sia il pessimismo puro, mi stupisce sempre vedere l'idolatria espressa dai più verso quell'altro demone altrettanto pericoloso: l'ottimismo.
L'ottimismo sembra esser diventato il nuovo oppio dei popoli, dopo la crisi della religione. Questa chimera infantile d'idilliaca armonia, cancella a priori qualsiasi forma di consapevolezza, in una sorta di alterazione che fa perdere ogni riferimento alla realtà, rendendo l'attraversamento della vita pericoloso quanto lanciarsi un una statale ad alta velocità sotto l'effetto di sostanze stupefacenti.
Il problema dell'ottimismo è che si tratta meramente di un filtro attraverso cui guardare la realtà, ma non è strumento per comprenderla. Già Schopenhauer aveva scritto nel 1819: "A questo mondo si è voluto adattare il sistema dell'ottimismo, dimostrandoci che esso è il migliore fra quelli possibili. L'assurdità di questa affermazione è clamorosa. Frattanto un ottimista mi intima di aprire gli occhi e di dare un'occhiata al mondo, per vedere quanto esso sia bello alla luce del sole, con i suoi monti, valli, fiumi, piante, animali e via di seguito. Ma allora il mondo è un diorama? Queste cose sono certo belle a vedersi,  ma essere queste cose è tutt'altra faccenda".
Vorrei imputare all'ottimismo una certa mancanza di acutezza percettiva, di empatia creaturale e di compassione, insomma una dose di cecità nei confronti del dolore che pure appartiene al mondo. La consapevolezza degli abissi di vita che si spalancano dietro la bella apparenza della natura, richiede una certa distanza sia dal pessimismo sia dall'ottimismo. L'osservazione non inquinata da un bieco pessimismo né da un superficiale ottimismo porta ad un risultato che potremmo definire realismo gnostico. E chi non abbia imparato ad affrontare la verità che la vita non è solo dolore o solo gioia, dovrà seguire la beffarda esortazione di Schopenhauer ad andarsene in chiesa o farsi cullare dai falsi miraggi dell'ottimismo, e lasciare in pace una volta per tutte la filosofia.
E' necessario quindi, per chi voglia davvero comprendere, rompere il blocco percettivo dell'ottimismo e annullare i sofismi che liquidano il male, per accedere ad una visione essenziale, o per dirla in termini induistici: spezzare il velo di Maya che impedisce la percezione della realtà.
Buddha ebbe a dire: "Prendete tutto il male e liberatevene. Poi prendete tutto il bene e liberatevi anche di quello".


Listen to "Il demone dell'ottimismo" on Spreaker.

martedì 14 febbraio 2012

Narcisismo minimo

Se fossi costretto a definire in una sola frase la salute psichica, direi che essa consiste in un minimo di narcisismo.
Freud intendeva il narcisismo come un atteggiamento in cui ciò che è soggettivo (i miei sentimenti, i miei bisogni, fisici e non) è molto più reale di ciò che è oggettivo, al di fuori di me. Gli esempi più vistosi sono dati dal bambino, in particolare dal neonato, e dallo psicotico. Per il neonato non esiste una realtà di fuori di quella, interiore, dei propri bisogni; fino ad un certo punto, in termini di percezione, il mondo esterno per lui non esiste. Lo stesso si può dire dello psicotico. La psicosi, in senso generale, è appunto il più completo narcisismo, dal quale è praticamente assente ogni relazione con il mondo oggettivo.
Il narcisista è semplicemente incapace, a livello emozionale, di concepire il mondo esterno come una realtà a sé stante (se non lo percepisse affatto sarebbe uno psicotico). Dato che il concetto di narcisismo nell'accezione freudiana provoca non poca confusione, è necessario sottolineare come il narcisismo sia cosa fondamentalmente diversa dall'egotismo e dalla vanità. Naturalmente anche l'egotismo implica una certa dose di narcisismo, che però non è necessariamente superiore alla media. L'egotista, come il narcisista, non è una persona che ama. Come il narcisista non è veramente interessato al mondo esterno, ma pretende tutto per sé. Però a differenza del narcisista, l'egotista ha un'ottima percezione del mondo esterno. Neppure la vanità implica un eccessivo narcisismo. Di norma i vanitosi sono persone insicure (proprio l'opposto quindi dei narcisisti) che hanno un continuo bisogno di conferme. Di fatto, quel che importa al vanitoso è principalmente il rapporto con suo senso di insicurezza. Al vero narcisista non importa nulla di ciò che gli altri pensano di lui, poiché non dubita minimamente del fatto che ciò che pensa di sé sia reale e che ogni parola che gli esce di bocca sia semplicemente meravigliosa.
Conseguenza del narcisismo è la distorsione dell'obiettività e del giudizio. Un'altra conseguenza importante è la carenza d'amore, poiché se mi occupo solo di me stesso non posso amare nessun altro al di fuori di me. Molte relazioni danno l'impressione di essere rapporti d'amore, per esempio quelle con i bambini. Spesso si tratta infatti di rapporti di tipo meramente narcisistico: la madre che ama i suoi figli ama in realtà sé stessa, poiché i figli sono i suoi.
Un'ulteriore conseguenza si manifesta quando una persona viene ferita nel proprio narcisismo. Si può avere una reazione di tipo depressivo, oppure di tipo rabbioso. Tra l'altro, una questione di estremo interesse in psichiatria è in che misura le depressioni psicotiche possano derivare da ferite del narcisismo. Quanto alla reazione rabbiosa, il narcisista reagisce così quando vengono urtati i suoi sentimenti. La maggiore o minore consapevolezza di questa rabbia dipende in larga misura dalla condizione sociale. Se questo individuo esercita un potere sugli altri, è probabile che sfogherà la sua rabbia in piena coscienza. Se invece subisce il potere altrui diventerà depresso.
La maggior parte delle religioni identificano essenzialmente lo scopo della vita con il superamento del narcisismo, con l'acquisizione della capacità di amare e di rinunciare all'adorazione del proprio Io, e il conseguente atteggiamento di accettazione della realtà così com'è e non come vorremmo che fosse.
Ma non esiste solo il narcisismo individuale, ne esiste anche la trasformazione in narcisismo di gruppo, che può essere un nucleo famigliare o una certa categoria di persone. L'esempio più eclatante è il narcisismo di un popolo. In questo caso l'atteggiamento si espleta in un "il popolo al quale appartengo è il migliore", atteggiamento che se riferito ad un singolo o ad una famiglia suscita sdegno, ma appare improvvisamente lodevole, morale e positivo se riferito ad un intero popolo o ad una religione.
Dal punto di visto della psicologia, il narcisismo di gruppo non si distingue troppo da quello individuale. Lo spostamento del narcisismo dall'individuo al gruppo, accompagnato da odio religioso e nazionalismo, non apporta modifiche rilevanti alla natura del fenomeno narcisistico. Ma c'è un aspetto importante: per un poveraccio che non ha niente, né denaro né cultura, è molto difficile indulgere al suo narcisismo individuale (a meno di non impazzire davvero), ecco quindi che lo slittamento verso il narcisismo collettivo gli consente di sfogarlo senza impazzire, tanto più che è confermato da tutti gli altri intorno a lui. Questo tipo di narcisismo è una malattia psichica e le sue conseguenze sono anche più gravi di quello individuale.
E' necessario comunque distinguere tra forme maligne e forme benigne di narcisismo. Le forme maligne si riscontrano negli individui psicotici. In questo caso, come abbiamo visto, il narcisismo è rivolto soltanto alla propria persona: la mia immagine, il mio corpo, i miei pensieri, i miei sentimenti, ecc. sono le le uniche cose reali, le uniche che contino. E' una forma maligna in quanto mi separa dalla ragione, dall'amore e dal mio prossimo. Nelle forme benigne, il narcisismo non è diretto a una parte specifica di me, ma a qualcosa da realizzare, a una conquista, sia essa materiale o intellettuale o spirituale. Ovvero, nelle forme benigne provo una certa dose di amore narcisistico, ma non per la mia persona, bensì per qualcosa che è al di fuori di me. Si tratta sempre di narcisismo in quanto il raggiungimento dell'obiettivo risulta essere uno scopo personale, il soddisfacimento di un proprio desiderio (seppur la meta possa apparire altruistica), ma è di natura benigna poiché nel momento in cui creo qualcosa, supero anche, in un processo dialettico, una parte del mio narcisismo. Se voglio produrre o realizzare qualcosa, sono costretto a relazionarmi col mondo esterno. Ma probabilmente senza l'impulso narcisistico non sentirei nemmeno il desiderio di creare qualcosa, riducendomi a mera passività.
Ecco perché io credo che la salute psichica abbia sì a che fare con il superamento del narcisismo, ma non al suo totale annientamento.

Fonte: Erich Fromm

martedì 7 febbraio 2012

Impazzire per capire

Secondo la psichiatria moderna, l'uomo per non impazzire ha bisogno fondamentalmente di due cose:
- un quadro di riferimento e di orientamento (cioè un insieme di regole e convenzioni, tipicamente imposte dalla società in cui si nasce e si cresce)
- un oggetto di devozione su cui investire le energie che eccedono la semplice produzione e riproduzione (che può essere una religione, un credo politico, una passione, uno sport, l'amore, il sesso, ecc, oggetto che anch'esso, molto spesso, è imposto dalla società o dall'ambiente in cui si nasce e si cresce).
Dalla lettura dei manuali di psichiatria e dallo studio delle nevrosi e delle psicosi, si ricava l'idea che tali patologie siano delle risposte che l'individuo dà al problema dell'esistenza umana. Si può quindi affermare che ad ammalarsi di nevrosi e psicosi sono proprio le persone più sensibili della media alla questione del senso della vita. Di norma, la maggior parte delle persone ha la pelle dura, nel senso che risponde alla questione di un determinato quadro di riferimento e di un determinato oggetto di devozione, nel modo prescritto dalla propria cultura. Chi invece è più sensibile e non riesce a trascurare l'impellenza del bisogno di un oggetto devozionale personale, elabora un proprio credo, che lo psichiatra definisce poi nevrosi o psicosi.
Sembrerebbe quindi che una persona debba impazzire per poter percepire i propri reali bisogni e necessità.
Lessing ebbe a dire: "Chi non perde la ragione per certe cose, evidentemente non è nemmeno in grado di ragionare"