lunedì 29 dicembre 2014

Il papa poeta e i vampiri di Transilvania



A Francoforte nel 1442 l'imperatore Federico III d'Asburgo incorona d'alloro il poeta Enea Silvio Piccolòmini.
I Piccolomini sono una grande famiglia di Siena. 
Sorvolo su una Siena in chiave Piccolomini, che pure mi tenta assai, perché quando nasce Enea Silvio, nel 1405, i Piccolomini sono esuli da Siena per ragioni politiche, e se ne stanno andando nel loro castello di Corsignano.
Corsignano al giorno d'oggi non c'è più: sarà Enea Silvio Piccolomini in persona a cambiargli nome quando sarà papa. La chiamerà Pienza (oggi comune di Siena). Se visiterete Pienza capirete l'errore in cui cadono molti, dicendo che il papa Pio II ha costruito una nuova vera e propria benché minuscola città, il delizioso avanzo di un sogno rinascimentale. Nulla di tutto ciò. Il papa Pio II, appena eletto, commissiona allo scultore e architetto Bernardo Rossellino la costruzione di una chiesa e di alcuni palazzi intorno alla piazzetta davanti alla chiesa. La chiesa è realizzata su uno strapiombo e richiede subito lavori di consolidamento, tuttora in corso. I palazzi sono costruiti per ordine del papa a spese di vari cardinali. Al palazzo Piccolomini si deve aggiungere un'ala per le cucine, che non erano state previste nel progetto. Nel progetto non è stato previsto il resto della città.
Per la storia dell'urbanistica Pienza non ha molto peso (mentre ha peso Palma, fondata dai veneziani nel 1593, al giorno d'oggi Palmanova, in provincia di Udine).
Se vi piace coltivare certi pensieri, potete pensare che Enea Silvio Piccolomini, diventato Pio II, ha voluto distruggere il castello di Corsignano in cui Enea Silvio era nato. C'è una frase di Pio II che dice: dimenticate Enea, prendetevi Pio (anche se, per Virgilio, Enea era per antonomasia pio: pius Aeneas)
Nell'anno 1442, a Francoforte, Enea Silvio Piccolomini è incoronato per cose empie.
Dopo aver studiato a Siena, Enea Silvio ha lasciato la città dei suoi nel 1431, al seguito di un cardinale, alla volta del concilio di Basilea. Incaricato di varie missioni corre in lungo e in largo per l'Europa, passando da un protettore all'altro fino a trovarsi nell'insolita posizione di segretario simultaneo del papa, dell'antipapa e dell'imperatore.
L'imperatore, il Federico III d'Asburgo da cui siamo partiti, incorona il poeta Enea Silvio per il divertimento che il multiforme senese dà alla sua corte, con opere latine più o meno erotiche.
Pochi anni dopo, Enea Silvio Piccolomini, abbraccia la carriera ecclesiastica. Prende gli ordini ed è subito vescovo di Trieste; nel 1456 è cardinale di Siena.
Nel 1458 muore il papa Callisto III. Il cardinale Enea Silvio Piccolomini viene eletto papa con il nome di Pio II. 
Per trovare un altro papa a nome Pio, bisogna risalire all'anno 140 dC.
Pio II ha cinquantanni, e fa tante cose.
Per esempio, come abbiamo visto, distrugge il castello di Corsignano, dove è nato, e cambia il nome al luogo: Pienza, dal proprio nuovo nome.
Trova anche il tempo per scrivere una autobiografia, Commentarii rerum memorabilium quae temporibus suis contigerunt, “cronache di cose memorabili successe ai suoi tempi”.
Non lasciatevi ingannare dalla brevità del presente articolo. I Commentarri di Pio II sono uno dei più bei libri del Quattrocento. Dell'intera storia della letteratura italiana. Certamente l'unica opera che valga la pena di leggere tra le infinite degli “umanisti esclusivi” (scrittori e poeti che scrivono “esclusivamente” in latino).
I Commentarii di Pio sono una lettura di notevole valore storico. "Pio II" - dice Creighton - "è il primo scrittore che tentò di rappresentare il presente come sarebbe apparso ai posteri, che applicò coscientemente una concezione scientifica della storia alla spiegazione e all'organizzazione degli eventi".
Enea Silvio Piccolomini, che ora è Pio II, ha una forte consapevolezza del fatto che l'autobiografia è un genere plurale. Parte col dichiarato proposito di lasciare un'immagine di sé da contrapporre a quella che i suoi molti nemici ne vengono divulgando, ma nel lavoro della scrittura sul dichiarato proposito prevale il divertimento della confusione.
Già la Crònica di Salimbene (1250) è un libro mirabilmente disordinato, quanto ad argomenti, ma il tono è costante. Nei Commentarii di Pio II sono mirabilmente confusi anche i toni. Accanto alla pagina riposata, alla descrizione elaborata, premono annotazioni concitate e fulminee, riflessioni strozzate, enumerazioni secche. Interruzioni, riprese, salti d'argomento.
Parla Enea, parla Pio, parla la folla accozzata dell'io.
C'è il primo testo fondamentale della storia del canottaggio, e c'è la prima testimonianza sui vampiri della Transilvania.









sabato 6 dicembre 2014

Don Chisciotte e il ronzino letterario














Quando si parla di un ronzino, molti pensano subito a Ronzinante, il cavallo di Don Chisciotte, il personaggio creato dalla fantasia di Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), autore del capolavoro, in lingua spagnola, della letteratura mondiale El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha.
E' la storia di un nobiluomo di campagna, Alonso Quijana, che a forza di parlare e di discutere di cavalleria e della gran virtù dei cavalieri antichi, riassetta le vecchie armi degli avi e parte in cerca di avventure tentando di ripercorrere  le "regis Arturis pulcherrimae ambages". Tra l'altro, ribattezza il suo magro e decrepito cavallo Rucinante, cioè Ronzinante.
Cervantes ha voluto fissare nel nome del destriero di don Chisciotte le qualità del povero animale trascinato in avventure bislacche. In spagnolo rocin significa cavallo di razza inferiore o di scarto, adatto soprattutto a portare bagagli (un ronzino, appunto). In francese antico era roucin, in provenzale rossin o roci, in portoghese rossim, tutti con il significato di cavallo di poco pregio. Quindi Ronzinante deriva da rocin.
Nella bassa latinità esisteva una forma runcinus, e in italiano è presente anche la definizione rozza per cavallo da poco conto, mentre nel tedesco antico vi sono le forme hros e ros.
Cervantes doveva sapere che il nome ronzino aveva profonde radici nella letteratura medievale trovadorica, quindi ben si adattava alle imprese di don Chisciotte. La parola roncì, compare infatti in un periodo anteriore al 1194 nel Contrasto con la donna genovese del poeta provenzale Rambaut de Vaqueiras. I versi di chiusura con cui la donna congeda in malo modo il trovatore che l'ha corteggiata invano, dicono infatti: "Juiar, ne serò con tego - Possa a te cal de mi - Meill varà, per San Martì - S'andai a ser Opetì - Que dar v'à fors'un roncì - Car sei juiar". "Non sarò tua" dice la popolana genovese "ed è meglio che tu vada da Obizzo Malaspina, che per San Martino forse ti regalerà un ronzino, perché sei un giullare".
Era tradizione per San Martino far doni ai poveri, e la donna non ha riguardi nel tacciare il poeta di giullare (invece che trovatore) e di mandarlo da un marchese benefattore per farsi dare una cavalcatura degna del suo rango, un ronzino, perché possa girare di corte in corte, di piazza in piazza, a cantare i sirventesi altrui.
E che Rambaut disponesse di un ronzino lo si apprende da un altro contrasto, questa volta con il marchese Alberto Malaspina. Il trovatore è già diventato cavaliere al servizio di Bonifacio di Monferrato, e nella lite in versi il marchese gli dice: "Que puis montez de roussin en destrier - non fesetz colp d'espaza ni de lansa" ("Da quando siete passato dal ronzino al destriero, non avete più combattuto"), versi che mostrano la differenza tra i due cavalli, che erano indice del grado della scala sociale nel feudalesimo.
Don Chisciotte quindi si crede un cavaliere errante, ma ha mantenuto come cavalcatura un ronzino, un cavalo di poco pregio che sottolinea l'abbaglio che il suo padrone ha preso nel voler rivivere un'epoca ormai tramontata.